
Scrivo nella notte, trafelato, dalla stanza di una topaia di Torino, zona boh, Porta Susa, in un luogo vicino al quale c’è uno svincolo autostradale che si chiama RONDO’ DELLA FORCA (no, seriamente!). Sono venuto qui per il Salone del Libro, un’esperienza che di anno in anno toglie un pezzetto di senso alla mia vita. No, voglio dire: perché? Perché lo fanno? Gli editori, intendo, soprattutto i piccoli editori, continuare contro ogni evidenza a progettare e pubblicare roba che io posso anche capire che si ami ma che il mondo, è evidente, non ama più.

È di questi giorni la vicenda angosciante di ISBN edizioni (per chi non lo sapesse, altrimenti si può saltare la parentesi: qualcuno ha denunciato su twitter che ISBN aveva i buffi e non pagava la gente, è scoppiato un avvilente casino sui social che ha lambito il territorio del “chi fa lavori creativi non viene pagato”, poi mi pare Coppola si sia scusato dicendo in sostanza oh mi spiace, stiamo fallendo non so che fare e davvero, per quanto possa essere odioso lui, in fin dei conti a volte preferirei riscoprire la pietà), che mi ha fatto capire – come se non lo pensassi già – che se chiude un editore così sono davvero cazzi.

Non sto facendo discorsi pisciosi di qualità, in fin dei conti non era proprio il mio genere, ma semplicemente a chi a cazzo duro & smargiasso scrive oggi sui social, Ah e così Coppola era PAGATO per far MALE il suo LAVORO eh?, vorrei dire che non so, non conosco la loro situazione dall’interno, ma immagino che se una casa editrice chiuda essenzialmente è perché non vende libri, e penso che se non venda libri una casa editrice così fighettina e giovanilista coi libri giusti e accessibili per gente che in teoria li compra (non so, i giovani?), e peraltro non ignota e relativamente ben distribuita, allora forse è il momento di arrendersi.

Che poi non ti arrendi, lo so, capisco, perché un conto è dire MI CONVIENE TROVARE UN LAVORO DA CASSIERE AL SUPERMERCATO e un conto è farlo, se ci stai dentro, ma la sensazione è un po’ quella di andare verso il nulla, tra chi se la prende con Renzi, chi con Berlusconi, chi si rassegna a un cambio epocale di abitudini, gusti e tendenze (in fin dei conti, prima si leggeva perché non c’era un cazzo da fa’: ricordo una terrificante notte insonne che passai a Magonza – no, non era Magonza ma a casa mia, ma qui siamo in pura narrativa e drammatizzo – leggendo un trattato di teologia perché davvero non avevo altro sottomano. Stasera sono qui in albergo, con un sacco di lirbi, eppure mi so’ visto la Lazio in streaming, poi ho chattato un po’ su whatsapp, e poi mi sono messo qui a cazzeggiare, finché non ho deciso di scrivere questa roba spinto da non so cosa), e il tutto con questo EBOOK , questo DIGITALE come dicono alcuni, sempre infilato su per il culo, tutti che lo fanno e ne dibattono straparlando (o meglio, delirando, secondo me) di politiche di prezzo, di sconti aggressivi, di possibilità di arricchire il testo (?) o chissà cosa. Dio bono, mi sento a volte come quei malati terminali a cui cacano il cazzo con le cure e a un certo punto loro dicono, oddio, lasciatemi morire in pace.

Cioè, non sto qui a dire che amo la carta e l’odor della colla (la “e” non c’è volontariamente), perché questo mi succede solo quando i libri son ben fatti il che è piuttosto infrequente, non dico nemmeno che non leggo ebook: trovo soltanto che gli editori, o forse dovrei dire NOI editori, ci stiamo dando un compito troppo elevato, alla portata di nessuno, che sarebbe quello di reinventare una forma di trasmissione del sapere e/o di passare il tempo efficacissima e di lunghissima durata nella storia umana ma di cui, forse, stiamo per vedere la sostanziale fine.

E no, non finiranno i libri e non finirà la musica, lo so, o meglio entrambi finiranno e finirà il gioco del calcio e finirà la domesticazione del cane; ci sarà un ultimo palazzo costruito, nel mondo, e ci sarà un ultimo piatto di cnederli; finirà ogni cosa, ma non lo vedremo in questa vita. In questa vita, e a questo mi riferivo, ci siamo dovuti accontentare di vedere la fine dei negozi di dischi, dell’industria discografica come la conoscevamo, del rock e di un botto di altre cose tra cui, credo, ci saranno le librerie e ci saranno gli editori in questo gran numero e pensati per vendere un numero piuttosto alto di copie di libri invendibili, ‘invendibili’ essenzialmente in quanto libri. Finiranno, penso, questi saloni, queste isteriche feste del libro quando non c’è nulla fa festeggiare, finiranno la retorica dell’evento (quella stronzata di #ioleggoperché, Saviano che fa comprare ai buzzurri un romanzo minore di Dostoevskij) che, da solo, dovrebbe far svoltare o cambiare tendenze e abitudini non modificabili, epocali, come non so la globalizzazione, come la fine della magia e dello spirito a favore di qualcosa chiamato INTERNET.
PS C’è una poesia famosa di Pessoa che inizia dicendo, Il poeta è un fingitore. Io sono un poeta: lo riscontro dal mio fingere senza ragione in modo naturale. Ho preso un taxi oggi pomeriggio, il tassista ha supposto – non so su che base – che fossi tifoso juventino. Ho confermato, mentendo, e abbiamo avuto una piacevole conversazione di una ventina di minuti su Morata e Zidane, Ibrahimovic e Henry (che errore cederlo!), e sulla prossima finale di Champions che temiamo così tanto entrambi. Però dai, non è detta l’ultima parola.
