Due ore e un quarto di concerto in uno squat grande quanto uno sgabuzzino e bollente peggio di una fonderia a ferragosto, in sei sul palco (più un roadie obeso bruttissimo che pareva la versione subnormale di Rick Rubin), gonnellino, cornamuse e tutto il resto, una line-up che comprende – tra gli altri – Sean Sellers dei Good Riddance (soprannominato “Pork Chop” per ragioni a me ignote) e l’inossidabile Karl Alvarez (venticinque anni di leggenda, un attacco cardiaco alle spalle e finito lo show beveva whisky dalla sua fiaschetta di metallo come un vero alcolizzato): i Real McKenzies oggi sono l’emblema della passione. Un carrarmato inarrestabile che macina pezzi come non ci fosse un domani, sudore a secchiate, vene pulsanti, corde vocali spinte oltre il limite, una scaletta che da sola occupava mezza parete; e ogni canzone è un inno da urlare a squarciagola, in alto i boccali, fianco a fianco con i propri migliori amici, con gli affetti più cari. Il tutto per cinque pidocchiosi euro: stare bene non ha un prezzo, ma quando è quasi regalato diventa commovente. L’unico risvolto negativo di un evento del genere è che di conseguenza tutti i concerti a cui assisterò nelle prossime settimane (o mesi, o anni, o vita) dopo stasera mi sembreranno merda. A settembre torneranno in Italia, chi non va a vederli è un vegetale che si merita tutto il vuoto in cui pateticamente ristagna. Ancora una volta eroici Real McKenzies.
foto di Saori R.F.