Tied To A Star, ‘Every morning’. Un’altra per J Mascis

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C’è un pezzo pauroso che sta su Tied To A Star, terzo disco solista di J Mascis (quarto se si conta il delirante, devozionale Sing And Chant For AMMA; come se poi quelli usciti a nome Dinosaur Jr non lo fossero, dischi solisti. Ma comunque). Si chiama Every morning e ha girato in anteprima su più o meno qualsiasi sito e piattaforma musicale, youtube soundcloud eccetera (senza considerare quelle illegali) durante l’estate, come se nel 2014 il concetto di “anteprima” avesse ancora un senso. Ad averlo ascoltato quando è uscito si sarebbe potuto rischiare di perdere la visione d’insieme, ma questo non lo saprò mai (non ascolto “anteprime” da nemmeno più ricordo quando, di sicuro gli mp3 non esistevano); Tied to a Star io l’ho ascoltato intero e quello che so è che Every morning è il pezzo che più di tutti gli altri e fin dall’inizio mi ha sfregiato peggio di una coltellata a tradimento. Il resto del disco non è altrettanto buono: molto bene le prime cinque, Wide awake, stesso titolo del pezzo degli Audioslave che sta su Miami Vice film, con Cat Power (bella Cat Power, la meglio cosa a cui abbia preso parte dopo My blueberry nights), Stumble, che porta alla mente il secondo pezzo di Beyond che invece si chiama Crumble e questo mi fa incrinare il cervello, poi il livello scende (con picco negativo nella strumentale Drifter, due minuti e quarantacinque secondi di vuoto pneumatico). Nel complesso offre ulteriori pretesti a chi la sa lunga per ricordare una volta di più, come in una raccolta statistica di commenti ridondanti, la somiglianza dell’afasico americano con Neil Young (voce miagolante, improvvise bordate di elettricità remissive e pettinate quanto i montanari di Deliverance, squarci melodici cristallini come il cielo a luglio, tutto l’armamentario di trucchetti su cui il canadese pare abbia posto l’imprimatur nell’immaginario collettivo da sempre; anche retroattivamente, più o meno da quando esistono gli amplificatori). Nessuna meraviglia: in un mondo che c’ha le leggi sue credi che sia Ian che ha copiato gli Interpol. Per chi invece riesce a vedere oltre il dito, Tied To A Star si svela come una strana via di mezzo, non sempre a fuoco, tra Straight Ahead di Greg Sage e la summa di vagonate di misconosciuti vinili da comune hippie dispersa tra le pieghe del tempo, di quelli che trovi un tanto al chilo in quei thrift stores che restano la prova di uno dei pochissimi casi in cui non ti viene da dare completamente ragione a Henry Rollins (nello specifico, quando ha detto “Vengo dagli Stati Uniti dove niente è bello”). Every morning spicca comunque, resta comunque speciale, perlomeno ai miei occhi e alle mie orecchie: in meno di quattro minuti racchiude l’intera poetica di J Mascis paroliere, esemplificandone perfettamente la metodologia, molto meglio che in altri suoi pezzi (e iniziano a essere parecchi ormai). Una magia che non succede sempre ma quando succede resta inalterata, stesso meccanismo. Forse Every morning non ne è l’esempio migliore in senso assoluto, ma è l’ultimo.
Non è mai stato un grande prosatore Mascis – nemmeno un grande oratore se è per questo; chiunque abbia letto, visto o provato a estorcergli un’intervista negli anni sa benissimo com’è la storia – da un punto di vista puramente lessicale, il suo vocabolario è alquanto limitato. Nelle canzoni le stesse parole ricorrono spesso, certo incastrate tra loro in modi diversi ma sempre quelle restano. Parole brevi, bisillabiche quando va grassa, a esprimere concetti immediatamente decifrabili, senza troppi retropensieri, il più delle volte senza retropensieri proprio. A un ascolto distratto i testi parrebbero poco meno che filastrocche sbilenche assemblate alla meno peggio da un bambino di quarta elementare (di quinta sarebbe troppo) con seri problemi relazionali, come rimasto bloccato a uno stadio evolutivo precedente; un puro pretesto per riempire gli spazi vuoti tra un assolo e l’altro, come nei dischi di Yngwie Malmsteen, o (in altri campi) nei film di Fellini prima di venire ridoppiati in sala montaggio: potrebbe cantare una serie di numeri, l’elenco del telefono come la lista della spesa, per un orecchio non allenato sarebbe uguale (niente testi nel libretto mai). Questo a un primo approccio (ma pure al secondo, al terzo, al cinquantesimo, sempre dato per scontato che ti freghi qualcosa di quel che ha da dire). È proprio qui che risiede il talento di J Mascis: nel far sembrare i suoi testi una serie di parole a caso, che però messe insieme, in qualche modo, miracolosamente acquistano un senso e un costrutto. Quando si apre la breccia riescono a esprimere il non detto, in aperto sfregio a Leo Ferré quanto a Wittgenstein quando dice che Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Every morning è tra gli esempi in assoluto più vividi di questa magia: parte piano e ti investe senza chiedere il permesso, un altro agglomerato di particelle assemblato in maniera apparentemente randomica (d’altra parte, chissà) da cui prende forma magicamente la frase che dilania, il passaggio che riduce un cuore in briciole. Sono dettagli che si svelano lentamente, un poco alla volta; nessuna fretta. Un lavoro di sottrazione, per chi lo sa capire, un assedio. Interruttori che scattano all’improvviso nel cervello; la voce uno strumento come gli altri, le parole tasti da premere, corde da pizzicare, pelli da percuotere, stessa differenza. Ci si finisce sotto senza nemmeno accorgersene. Di colpo tutto torna, è l’istante in cui il pezzo ti sta parlando; una volta dentro resti dentro, un ascolto tira l’altro, e viene spontaneamente da essere grati che esista la parola.

Every morning makes it hard on me. Every morning makes it hard on me
Then I wake to who I’ll never be. Then it hits me, it’s the life I lead.
Every morning makes it hard on me. Piece together what could never be.

Occorrono parole semplici per esprimere concetti universali; il difficile è riuscire a trovarle e far sembrare l’assemblaggio un processo naturale, un’inezia. Quando questo miracolo accade, estasi e tormento in parti uguali (mastodontiche) per chiunque lo sappia cogliere, scatta il loop compulsivo, vorresti non finisse mai. Altri pezzi in cui è successo, limitandosi agli ultimi anni: Pieces, Plans, Over it, Is it done. In tutti i casi, momenti in cui arrivi a credere davvero che J Mascis sia il più grande scrittore di testi al mondo.

Una per J Mascis e i Dinosaur Jr (il ventennale di Without A Sound un puro pretesto)


Feel the pain è il primo pezzo dei Dinosaur Jr che ho ascoltato nella vita. Il singolo era uscito mesi prima dell’album e con un video del genere, finito in heavy rotation all’istante praticamente ovunque, sarebbe stato impossibile non notarlo. Credo con buona approssimazione quel video l’abbia visto più o meno chiunque fosse a contatto con un televisore ai tempi. Per il regista Spike Jonze, un uno-due che giustifica una carriera: nel giro di pochi mesi, quello e Sabotage dei Beastie Boys – quest’ultimo con tanto di storia assurda a motivare: doveva essere un film vero e proprio, parodia blaxploitation meta-qualcosa, roba stupidissima nei risultati e intelligentissima nelle intenzioni, si sono smagnetizzati i nastri (o sono finiti i soldi, non ricordo) e ha dovuto fare con quel che c’era, montaggio alla brutto Dio e via. Il risultato è qualcosa di ciclopico comunque sia andata (anzi, forse è pure meglio sia andata così alla fine: bozzetti appena accennati di situazioni paradigmatiche da poliziesco di serie Q, allucinogena sequela di baffi finti, occhiali a specchio, ciambelle e caffè, nomi assurdi – Alasondro Alegré mi si è tatuato nel cervello da allora – nessuna trama, niente pippe). Per Feel the pain la lavorazione è infinitamente meno travagliata e la storia molto più semplice. Una sola idea, stirata oltre il parossismo: J Mascis che gioca a golf nel centro di New York City, in pieno giorno, asfalto strade trafficate eccetera (Mike Johnson, l’unico altro membro superstite – Murph era stato silurato da poco – è il caddy). A ogni tiro la spara nei posti più improbabili, traiettorie spropositate in sfregio a qualsiasi legge della fisica, con conseguenze spesso farsesche; dopo l’ennesimo tiro mirabolante la pallina finisce sul tetto di un grattacielo al tramonto, lì c’è la buca, con tanto di tappeto verde e bandierina. Ultimo tiro decisivo, pena un umiliante bogey o peggio. La butta piano, finisce in bilico; interminabili secondi a ondeggiare sul filo di lana mentre in sottofondo l’assolo è già partito, primo piano di Mascis che fissa la palla come Christopher Walken la pistola nel Cacciatore, se Christopher Walken fosse un bradipo sovrappeso con la fissità di un tavolo autoptico, la palla va in buca, tripudio. L’ultima inquadratura resta tra le cose più stupide, becere (nell’accezione più nobile possibile) e divertenti io abbia mai visto. Dissolvenza in nero.

Erano giorni strani. Cobain morto da poco, sembrava che il mondo intero stesse immobile, col fiato sospeso, ad aspettare la prossima mossa. Nessuna direzione, il buio più totale; l’urgenza (di più: la necessità) che qualcuno indicasse la strada da seguire, quale che fosse. Per il momento c’era Feel the pain con il suo video simpatico.
Where You Been, la cosa più bella mai uscita a nome Dinosaur Jr, era improvvisamente diventato un remoto non-luogo della mente, abissalmente distante, cancellato da una fucilata (come poi tutto il resto in realtà). Non ancora metabolizzato, non lo sarebbe stato mai. Ne ha scritti tanti di capolavori J Mascis: You’re Living All Over Me, Bug, Hand It Over, Farm. Ma Where You Been è speciale. Una volta lasciato entrare in circolo è la fine, non se ne esce indenni. La portata, l’intensità del dolore che procura, che non smette di procurare, il modo in cui fa sentire, di colpo e senza ritorno, completamente inermi, esposti, vulnerabili, sono qualcosa di impossibile da descrivere, da quantificare. Non esistono armi né barriere che possano in alcun modo contrastare l’assalto frontale che è Where You Been in questo senso, a parte l’indifferenza. Si può scegliere di ignorarlo o passarci attraverso restandone intoccati; succede. Ma dal momento in cui senti che quelle canzoni ti stanno parlando, e ci sei dentro, una volta dentro sei fottuto per sempre. All’istante.
Reggere il confronto sarebbe stato impossibile, per chiunque, e J Mascis nemmeno ci prova. Il testo di Feel the pain lo scrive direttamente in studio, prima di iniziare le registrazioni, questo può far capire quale fosse il mood generale. A parte un pezzo: I don’t think so. Il solo ipoteticamente degno di venire incluso nella scaletta di Where You Been, se non altro per depotenziarne (ma soltanto in superficie) l’effetto globale. Le parole sono le stesse, i concetti gli stessi, cambia la musica: confidenziale, apparentemente disimpegnata, a rendere umanamente sostenibili, perfino sopportabili, stati della mente che sono e restano lame nella carne. Complessivamente una stilettata in pieno petto, del tutto a tradimento. Mi piacerebbe credere che lei abbia pianto per me, ma non lo so. Può essere che lei abbia pianto per me? Non credo. Parole che non smettono di colpire dove fa più male, con perizia e sadismo immutati, ogni volta che le fai girare, regolarmente in corrispondenza di un ricordo che lacera al solo manifestarsi. Il resto del disco lascia il tempo esattamente come l’ha trovato e si dimentica all’istante appena finisce l’ultimo pezzo. Almeno a me succede così, da vent’anni.

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Without A Sound esce il 23 agosto 1994. Copertina orrenda, peggio del solito, niente testi as usual. Sulla scorta del video di Feel the pain diventa immediatamente il disco più venduto dei Dinosaur Jr, ma l’andazzo non dura molto; è un fuoco di paglia, una bolla che si sgonfia a velocità vertiginosa, ne sono la prova le camionate di forati che nemmeno un anno dopo invadono gli scaffali dei negozi a quasi un decimo del prezzo di partenza. Mascis se ne frega, ha altro per la testa; il padre è morto, per elaborare il lutto e tornare sulla piazza gli occorreranno tre anni. Dopo un silenzio radio praticamente ininterrotto (nel mezzo solo Martin + Me, sbracato live acustico pubblicato a nome J Mascis in cui oltre al suo repertorio massacra anche pezzi di Greg Sage, Carly Simon, Smiths e Lynyrd Skynyrd), nel 1997 dei Dinosaur Jr al mondo importa meno di nulla (a parte una risicata schiera di irriducibili, sempre decrescente). Non basta il titanico Hand It Over a risollevarne le sorti (Kevin Shields ai controlli, infatti suona come nessun altro disco dei Dinosaur Jr ha suonato mai, c’è anche Bilinda Butcher ai cori; commovente, squarci di luce a tratti accecanti, un capolavoro assoluto destinato a rimanere incompreso), ci vorrà la reunion con Barlow e Murph relitti nel decennio successivo per riaccendere interesse nelle platee. Mezzi per un fine: Beyond puro riscaldamento, Farm deflagra, riapre ferite che si scoprono ancora spalancate. Più che un disco, una tortura cinese, in costante torsione verso la pop song definitiva. con Plans quasi ci riesce. Non ho ancora sentito I Bet On Sky, continuo a temporeggiare: il ricordo del predecessore ancora brucia dentro di me. Non so, forse non lo ascolterò mai, esiste questa possibilità.

Apocalypso Disco

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Un libro che è un pezzo di vita. Riccardo Balli ha attraversato da frequentatore, testimone oculare, ideologo, a volte da protagonista, un ventennio abbondante di evoluzioni, filiazioni e ramificazioni della musica da ballo più ostica, incompromissoria e assolutamente non riconciliata in circolazione, un percorso di fiera marginalità ultraunderground condotto con rigore filologico, convinzione incrollabile e passione inestinguibile, seguendo (spesso tracciando) traiettorie oscure e incomprensibili ai più, in storie che – per citare il poeta – capiremo forse quando sarà nonno. Oggetto di studio il lato sommerso e più visceralmente sperimentale dell’elettronica post rivoluzione copernicana della techno, una terra di confine dove non esistono schemi o formule né alcun tipo di certezze rassicuranti e spegnere il cervello non è contemplato, non c’è limite alle ibridazioni tra generi e infrangere i limiti è l’unico credo, dove la forza di un’idea sa essere più ottundente di qualsiasi droga e la contaminazione di forme e linguaggi è più che auspicata – è necessaria. È roba pericolosa perché carica di significati veicolati in piena consapevolezza e per questo realmente in grado di stimolare una riflessione (di qualsiasi tipo, perché l’importante è pensare in quanto tale, non a cosa pensare). In un certo senso, la negazione stessa del concetto di easy listening. Una strada accidentata che in pochi, pochissimi hanno avuto il coraggio di abbracciare e percorrere fino in fondo; una strada che quasi sempre si percorre in solitudine, del resto le probabilità di incontrare spiriti affini lungo il tragitto sono pari a zero o quasi. Bisogna avere una passione smisurata per andare avanti e perseverare, e di passione ce n’è tanta da uccidere un toro tra le righe di Apocalypso Disco (Agenzia X, 192 pagine, 14 euro), allucinata e al tempo stesso lucidissima ricognizione che viaggia su più livelli, come un videogioco di Jeff Minter riprogrammato da Escher, multifunzionale come un disco degli Psychic TV del periodo più visionario, costantemente scisso tra narrativa e vissuto personale, saggio filosofico e cut-up burroughsiano, re-edit e febbrile diario di viaggio, racconto orale e romanzo di fantascienza, ma quella fantascienza schizzatissima e malsana e foriera di oscuri presagi la cui potenza delle immagini arriva a lambire territori contigui al Philip K. Dick più allucinato e in preda agli acidi, come la trilogia di VALIS riscritta da uno squatter vegano con la mente che gira a una velocità sconosciuta (comunque non la nostra). Nelle parti che parlano degli anni novanta la carica evocativa è devastante: è come ripiombare a piedi uniti in un universo lontano e famigliare, vedere scorrere una serie di belle immagini che innescano una reazione a catena di rimandi e ricordi – non necessariamente collegati, è lo spirito del tempo ad essere lo stesso. Cyborg (la rivista), Tunnel (la fanzine), le sculture dei Mutoidi, le tavole del Professor Bad Trip, i dischi dei ClockDVA su Contempo, quell’abbagliante supernova che fu la Telemaco Comics con le edizioni italiane di Isaac Asimov Science Fiction Magazine e Le avventure di Luther Arkwright (il fumetto più bello di sempre), l’esplosione della seconda ondata cyberpunk, Mirrorshades finalmente in Italia con in copertina Mozart con gli occhiali da sole, Il tagliaerbe al cinema e Mad Max su Italia1 il sabato sera. Ed è dolce perdersi nella vertigine di nomi di supernicchia e superculto e scoprire generi di cui si faticherebbe a ipotizzare l’esistenza, un florilegio di definizioni che sono tanti grimaldelli nel cervello, un universo sconosciuto al 99% di chi ogni giorno calpesta questo pianeta, costellazioni di scene, etichette, festival che nel nome di una visione continuano fieramente a operare al di fuori da ogni tracciato. A completare il quadro una serie di interviste, da Christoph Fringeli fondatore di Praxis Records e del magazine Datacide a Daniel Erlacher di Widerstand e Elevate festival, dall’antropologo Graham St. John a Ralph Brown, il primo – e, finora, unico – produttore extratone italiano (l’extratone è un sottogenere della speedcore dove i brani superano i 3600 bpm). Un libro che è un pezzo di vita.
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SONIC BELLIGERANZA IN CINQUE MOSSE

Sonic Belligeranza è l’etichetta di Riccardo Balli. Partita nel 2000 come emanazione prettamente breakcore con la prima uscita Serious and Comical Investigations at around 333 bpm, ne prende ben presto le distanze per evolversi in qualcosa di alieno, imprendibile e totalmente a sé stante, spesso ai limiti del situazionismo puro, roba nervosa, impenetrabile e aggressivamente mentale che in nessun caso può prescindere dal lavorio teorico e dalle complesse impalcature concettuali che stanno dietro ogni uscita. Attivo anche come produttore e DJ, Balli col tempo è diventato un toponimo, come Morrissey, o Danzig. Di seguito, in ordine sparso, alcuni dei tasselli fondamentali di questo viaggio.

+ BELLIGERANZA cd02 N. ‎– Memories From Before Being Born (2005)

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Due piastre per cassette vuote, una connessa all’altra, nessun suono se non la distorsione prodotta dalle piastre stesse in play/rec. Quel che ne esce è qualcosa di molto vicino al suono più angosciante del mondo, isolazionismo puro, come un registratore lasciato acceso dentro una bara vuota sepolta sotto chilometri cubi di cemento armato, brevi sinfonie per fabbriche abbandonate, i macchinari che entrano in funzione in piena notte come azionati da fantasmi. Unico paragone possibile il più recente Sounds From Dangerous Places di Peter Cusack ma senza l’apparato suggestivo a motivare, soltanto abbrutimento, autismo e desolazione incalcolabili. Terminale.

+ BELLIGERANZA cd01 SANdBLASTING – El Paso Sound-Wall (2003)

sandblastingIl titolo dice tutto. Il primo pezzo (Materia prima, tanto per chiamare le cose con il loro nome) è un’improvvisazione live registrata al centro sociale El Paso, un muro di rumore da spettinare il Merzbow dei tempi d’oro; i successivi cinque variazioni sul tema operate seguendo una metodologia di lavoro controllatissima e maniacale, di fatto rifondando il concetto stesso di “remix”. Tra i lasciti più radicali del torinese Luca Torasso, oltre che un doveroso tributo a un posto che per la sua città è come la Mecca in Arabia.

SB04 Dj Balli – Straight-Edge Rastafari Manifesto (2003)

– BELLIGERANZA 02 DJ Balli Is The Wrong Nigga To Fuk Wiz ! ‎– From The Inside (2005)

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Probabilmente la pietra tombale dell’intero movimento breakcore, le colonne d’Ercole del genere; oltre sarebbe impossibile spingersi. Insieme, un incubo marinettiano di ritmiche spezzate, evoluzioni da stato dell’arte del turntablism e campionamenti da ogni tipo di sorgente sonora, dai film di serie Z (ma senza la patina becera e umanamente degradante propria del grind più deleterio) alle maratone di liscio da balera romagnola, dall’inno di Forza Italia a lezioni di educazione sessuale estrapolate da vinili che sono reperti archeologici da mercatino delle pulci di Brick Lane, lo sticker “questo non è un disco breakcore” sulla copertina di From the Inside una pisciata in faccia alla pipa di Magritte. John Oswald la prenderebbe bene, ma anche Lee Harvey Oswald.

SB10 DJ Balli/Ralph Brown ‎– Tweet It! (Extratone Mix) (2012)

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Un ponte tra musica elettronica e Twitter, in specifico una trasposizione audio del flusso informazionale del noto social network basato sulla bizzarra coincidenza di numero di bit informazionali prodotti al secondo:

AUDIO DIGITALE (QUALITA’ CD) 44100 khertz a 16 bit la codifica x 2 canali stereo = 1.500.000 bit al secondo

TWITTER 2600 tweet al secondo (statistiche ufficiale Twitter.com 2012) x 70 caratteri (la media effettiva di lunghezza dei Tweet) x 8 bit la codifica = (anche qui) 1.500.000 bit al secondo.

Da qui l’idea di impostare un Twitter disco in cui i 14 brani durano 1 minuto e 40 secondi (il pezzo di introduzione e quello finale invece 0.14 sec.), con liriche di 140 caratteri e velocità 140(0) bpm.

Nella pratica un mostro irraccontabile, entropia pura, tra le rappresentazioni più spaventose e ferali di abisso nietzschiano mai incontrate, roba al cui confronto 1TB Noise di JLIAT o l’opera omnia di Autodigest diventano cazzatelle da educande. Un Moloch, serio candidato al titolo di disco più inascoltabile di sempre.

Helmet @ Ravenna, Bronson (03/12/2010)

E niente, me ne sto in mezzo al Bronson a farmi un pentolino di affari miei durante il concerto di Owen Pallett, il martedì sera. Owen Pallett non è nemmeno male, un bel ragazzone figo con camicia e frangia molto indie-omo, un violino e una scatolina per i loop e gli effetti e quel che cazzo è. Owen Palle. A un certo punto fa una cover di Odessa. Me la ascolto davanti. Mia mamma e mio papà non mi hanno creato per stare a sentire Owen Pallett che fa una cover di Caribou, ma in un disegno divino abbastanza vasto ci puoi metter dentro tutto quanto; peraltro Owen Pallett sta suonando davvero bene. Ecco, l’ho detto. Il fonico del Bronson mi sorride e mi viene incontro, non so bene perché. Mi dice che oi, ero di fianco al palco con gli Helmet, ti ho visto in prima fila, eri bello carico. Ho 33 anni, la ciccia, i mutui e le rate dell’auto. Non posso essere identificato come bello carico a un concerto qualsiasi, non voglio che la gente mi veda bello carico.

Gli Helmet hanno suonato il venerdì prima. Di spalla c’era un gruppo irlandese PESO chiamato LaFaro. La sQuola è quella di certi gruppi che dietro al disco avevano la gigantesca scritta NOISE, Surgery piuttosto che certi Cows piuttosto che qualche inflessione motorheadiana. Un batterista strepitoso, un gran suono, un chitarrista ciccione. Possibili Piccoli Fans dell’anno. Poco dopo i roadie liberano il palco, puliscono per bene in terra, provano le chitarre e sistemano un bell’assetto asettico. Decido di spararmelo in prima fila perché l’ultima volta li ho visti da dietro. L’ultima volta era sempre qui. La volta prima era allo Slego di Rimini, la penultima data di sempre per gli Helmet con la formazione storica –si fa per dire, diciamo degli Helmet con Henry Bogdan e John Stanier. Costava più allora di quanto costi oggi, anche senza tener conto del cambio, e decisi di paccare per puro principio. Il giorno dopo fecero un concerto a Torino, di spalla dei Linea 77 ancora sostanzialmente sconosciuti. Lessi il report su Rumore, che era LA rivista che leggevo all’epoca. Dopo il concerto degli Helmet a Torino non è successa moltissima roba al genere: per prima cosa si sono sciolti gli Helmet, poi quel genere di rockettone lì è diventato un affare da miliardi di dollari e di lire e di euro. Amphetamine Reptile ha chiuso i battenti a fine ’98, i Korn hanno iniziato a fare dischi brutti, la batteria alla John Stanier s’è iniziata a sentire più o dappertutto –la batteria di John Stanier, invece, è entrata in sciopero per diversi anni. Dieci anni dopo siamo di fronte ad uno dei più clamorosi casi di rimozione collettiva di sempre: il bassista di quella band è diventato una specie di mammasantissima della steel guitar mentre il batterista ha passato quindici minuti di cooless assoluta con i Battles. Page Hamilton ha riformato gli Helmet onorando o sfruttando un contratto Interscope ancora aperto, facendo girare ad oltranza la formazione per passare dagli iniziali John Tempesta e Chris Traynor a una line up con tre turnisti sbarbi tecnicamente paurosi che sembrano messi sul palco apposta per eseguire gli ordini e non farsi guardare troppo. Ha rotto il fidanzamento con Winona Ryder e compiuto cinquant’anni. Sale sul palco ed è bellissimo, capelli bianchi quasi a zero, fisico asciutto, maglia attillata e pantaloni ultracomodi. Il batterista è zoppo, l’altro chitarrista ha un berretto da baseball calato sugli occhi come se fosse il ’95.

Lo è. Compio diciott’anni non appena Page Hamilton tocca la chitarra e intona il tanti auguri, vale a dire un’iniziale paurosissima Unsung. Peso settantadue chili, ho un pizzetto rosso acceso totalmente RIDICOLO che arriva sotto lo sterno, capelli tagliati ai lati, pantaloni da skateboard troppo larghi anche per un samurai, un paio di adidas gigantesche ai piedi, le mani in tasca, una felpa rovesciata senza cappuccio come non ne fanno più. Conosco a memoria Strap It On, Meantime e Betty. Ho comprato Born Annoying in cassetta da Francolini a trentacinquemila lire, ma ho ammortizzato il costo sfracellando le statistiche di ascolto di un singolo disco. Medito di salire sul palco al secondo o terzo pezzo ma al primo stagediving un buttafuori scende in mezzo alla pista e fa capire che non è aria. Intorno a me hanno tutti la mia età, trent’anni passati da un pezzo e diciott’anni appena compiuti. Domani vado a fare il foglio rosa, stasera medito di spezzarmi una gamba. Nel programma ci entrano tutte le epoche degli Helmet, dall’inizio alla fine della carriera. Non c’è Just Another Victim, c’è roba recente che fatico a distinguere ma che –diciamocelo- dal vivo suona tremendamente meglio di quei dischi post reunion che ancora non si è capito come abbia avuto il coraggio di far uscire. La scaletta attaccata col nastro per terra chiude la prima parte con In The Meantime (sotto al palco è pieno di ciccioni appesantiti da quindici anni di alcolismo sedentario che si stanno UCCIDENDO DI BOTTE, la sensazione è come se fossero entrati nella piscina di Cocoon). Per il bis c’è scritta roba tipo Milquetoast e FBLA II, mica cazzi, ma Page decide di consultarsi col gruppo e suonare qualcosa “che ci vada di fare”. Escono fuori un pezzo da Seeing Eye Dog e la commovente conclusione di Wilma’s Rainbow. E sì, sono bello carico. È il mio diciottesimo compleanno, me lo merito. Nel mezzo riesco a scattare qualche foto col cellulare. Nel ’95 non sarebbe successo, ma il resto è identico. Ho appoggiato il giubbotto sulla prima fila di ampli, Page è proprio sopra di me e mentre si sporge verso il pubblico a stringere qualche mano me lo calpesta un po’. Non è proprio come in Proust, è più come chi ti racconta che la sua vita è cambiata dopo avere incrociato lo sguardo di Kirk Hammett durante Fade To Black a San Siro.