Sandra Bullock e Sly di nuovo assieme vent’anni dopo Demolition Man

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Non mi è mai importato molto di Alfonso Cuaron e se questa è l’introduzione, avrete già capito che posso andare a parare solo da due parti: “… ma Gravity è un filmone pazzesco” oppure “…per questo sono andato a vedere Escape Plan.”

Gravity è un filmone pazzesco. La sua “fisica con licenze” non basta a metterlo nel genere fantascienza, al massimo è un film da esperienze estreme tipo quelli in cui c’è uno incasinato e infreddolito in cima a montagne innevate o bloccato in un crepaccio a bere urina e mangiarsi braccia. Ma anche questo è riduttivo. Gravity è il film che per la prima volta dà un senso al 3D che non sia l’accumulo (suca James Cameron) ed è un’opera angosciante e viva sulla Natura, l’appartenenza, il limite (suca tardo Terrence Malick). Un’ora e mezza benedetta da una grandissima tensione iniziale con dialoghi immersi in piani sequenza hitchcockiani in cui bisogna stare attenti ai dettagli e alle deviazioni che preannunciano il disastro. Da lì in poi il film procede come una classica corsa contro il tempo, dove lo sviluppo non cerca la sorpresa, ma l’esecuzione magistrale con la sensazione di vertigine restituita da un 3D che scalza qualsiasi grandangolo o zoom/carrello, raggiungendo l’apice della profondità nelle frequenti soggettive della protagonista. E intervalla il percorso con segmenti di calma apparente che non fanno altro che aumentare l’angoscia un po’ perchè la quarantanovenne Sandrina nazionale in mutande fa ancora la sua porca figura, un po’ perchè le parti “al sicuro” nelle varie stazioni spaziali sono un costante assedio da parte del vuoto. Non che l’ansia nello sguardo di Gravity sia una novità assoluta (nel mondo videoludico le sezioni a gravità zero di un Dead Space erano già tremendamente efficaci e trascinanti in tal senso) e la sensazione di uno spazio non semplicemente ostile, ma estraneo, letale senza appello, era già materia di quella splendida, crudele serie televisiva che era Stargate Universe. Quello che Cuaron è riuscito a tirar fuori dal cilindro è una parabola semplice nei caratteri e nei concetti, spaventosa nelle conclusioni che rimarcano la nostra fragilità e la necessità della nostra piccola cupola dispersa nel cosmo, ma al contempo dona a quegli squarci di Terra una divinità al di fuori di qualsiasi retorica o religione.

Per questo subito dopo sono andato a vedere Escape Plan. Insomma, Gravity mi lascia in eredità un’angoscia e una strizza (si, strizza! Paura!) che devo sfogarmi immediatamente. Nel senso che sento che se mi rimetto a pensare al film comincio ad urlare, come Homer nell’episodio dei Simpson in cui afferma l’importanza capitale dello sbomballarsi di tv e cazzate varie. Poi insomma: parliamo di un film con Stallone e Schwarzenegger in versione real buddy, non finto buddy alla mercenari, mica di pizza e cavolfiori. La sala è la stessa, rapida corsa al botteghino, scaramuccia colla cassiera (“Ma non sei appena uscito da Gravity?””Eh.” “Cristo.”) 3, 2, 1, trailer di Thor (potenziale 7), trailer di quella roba tipo Hunger Games colle astronavi (potenziale 4), partenza. Non è immondizia, ma come carcerario d’evasione non va fino in fondo (a ¾ si trasforma in un action duro e puro), come commedia non ha dialoghi brillanti e visivamente è piatto come una tavola da surf (fermo restando che ero reduce da un’avanguardia del livello di Miami Vice). Le cose migliori sono riprese dalla prima stagione di Prison Break, Sly è più vecchio del solito, Arnold in formissima tanto che nella mia mente confusa sono sicuro che alla fine Sandra Bullock punterà sull’austriaco. Ah sì, ad un certo punto Schwarzy impazzisce e comincia a blaterare in tedesco in una versione gigiona e steroidea di Linda Blair: vale il prezzo del biglietto (non è vero). I mussulmani sono i nuovi negri e i negri sono 50 cent borghese nel ruolo inutile della vita. Amy Ryan ti ricordi com’era bello The Wire? Jim Caviezel continua imperterrito nel sottolinearsi come la grande promessa non mantenuta degli ’00, con il fantasma di Donald Sutherland che lo prende da dietro ancora e ancora, tanto che alla fine gli tocca fare una smorfia simpatica prima di esplodere. Vinnie Jones ha girato le sue scene davanti al blue screen con la Performance Capture per diventare una copia in CG di Vinnie Jones. La presenza di Sam Neill è una cosa a metà tra il cammeo e un padrone di casa che gli rompe i coglioni per l’affitto. Le spirali virali della mediocrità di Escape Plan stanno mangiando le eccezionali sensazioni lasciatemi dal film di Cuaron ad una velocità proporzionale a quella dello sputtanamento di Vincent D’Onofrio come viscido traditore.

Finisce il film che mi sono dimenticato Gravity. La prossima settimana voglio provare con La donna che visse due volte e Checco Zalone.

“Ci sono un cinese e Jimmy Bobo in un bar…”

il fumetto di partenza è più poliziesco sporco, niente di trascendentale e comunque non c'è stallone
il fumetto di partenza è più poliziesco sporco, niente di trascendentale e comunque non c’è stallone

Walter Hill mi fornisce la scusa per fare il punto sui registi di genere* della nostra infanzia che oggi faticano a conquistare le nuove generazioni e la colpa naturalmente è degli anni ’90, di ogni cosa possiamo dare la colpa agli anni ’90. Non ci saranno di seguito grandissime tesi sull’argomento, solo qualche esempio: allora, Wes Craven è morto non so quanti anni fa, credo un incidente ed era in macchina con Tobe Hooper; Sam Raimi torna dalla vacanza spider-man (quello lo classifico come periodo di inattività) e si mette a dirigere un horror che gli viene maluccio per chiunque abbia gli occhi e quindi gli viene bene per una buona fetta di critica che ci vede, nell’ordine: 1) sano horror ottantiano 2) analisi sociale 3) la crisi immobiliare da pisciare in testa a michael moore 4) effetti speciali al computer parodistici e quindi accettabili in quanto parodistici non so se ho già detto “parodistici” 5) cameo di Bruce Campbell che infatti non c’è; Joe Dante già gli sopravvalutavano la pur divertente cazzatina con bugs bunny, ma The Hole alla fine è un film fuori dal tempo, detto non come complimento; John Carpenter, che è Dio per chi scrive, poteva incastrare The Ward nei masters of horror che era la sua dimensione e nessuno gli diceva niente visto che avrebbe fatto 3 su 3; Bill Friedkin forse è il più eclettico e colto del lotto e quando uno ti tira fuori Bug e Killer Joe che gli vuoi dire?; Richard Donner ha girato Solo due ore, quindi è a posto per i prossimi 15 anni; non parlo di John McTiernan. Se vi steste chiedendo il perchè ho evidenziato il nome di John Carpenter, evidentemente non conoscete il postulato che recita che “in una lista di registi in cui viene citato John Carpenter, il suo nome sarà l’unico grassettato.”

Per Walter Hill gli anni ’00 sono un Broken Trail lontano e facciamo che non vale perchè è un film fiume per la tv. Bellissimo tra l’altro. Un Undisputed lontanissimo. Ci sono anche un disgraziato Supernova e altra tv, tipo il pilot di Deadwood, ma la serie Deadwood è fuori scala, un altro pianeta e non parliamone più. Quindi Jimmy Bobo – Bullet to the Head sarebbe di fatto il banco di prova per vedere se le nuove generazioni si meritano Walter Hill, ma va a finire che è, in scrittura, un film di Stallone. La storia è che Stallone incontra un poliziotto coreano, che ti ricordi che c’è quando leggi il secondo nome sui titoli di coda, e insieme, ma in realtà solo Stallone, vanno a sgominare il negro cattivo. Sulla loro strada Khal Drogo e Christian Slater con i capelli trapiantati. Ah sì, quando Christian Slater avrà il coraggio della sua calvizie diventerà il più grande attore di tutti i tempi. Sarah Shahi fa la figlia di stallone e ancora una volta è lì lì per mostrarci bene le tette, ma poi è di nuovo rapidissima a coprire tutto che neanche collo stop frame. Tutto qui. Non ci troverete finezze e caratteri forti come in altri buddy movie di venti e passa anni fa, Joel Silver non è più così duro e puro e i tempi sono sufficientemente diversi per smontare anche il culto del film violento come piacere proibito. Ideologicamente Jimmy Bobo sta al buddy movie come I mercenari sta all’action/warmovie di serie B, lo si capisce da come vengono forzate certe battute, da come la trama è orgogliosamente terra-terra (un cattivone dichiara con trasporto che il suo piano cattivone è abbattere i quartieri popolari per costruirci un centro commerciale e case di lusso, capirai), dal giochino delle citazioni. E ammetto che non sono un fan del postmodernismo fast food, mi fa rimettere in moto l’incredulità.

Detta così sembra che il film si meriti la colonna dei Grandi Ritorni Cattivih (GRINCH), ma sarebbe ingiusto. Walter Hill ci mette una prima mezzora potentissima che è proprio roba sua e un’oretta restante sbiadita ma con un buon ritmo per cui rimani attaccato lì, Steve Mazzarro schitarra blues arrogante senza pietà in una simil new orleans bastarda, Stallone contribuisce ad edulcorare il tutto affinchè non salti fuori una cosa seriosa alla History of Violence. La conta dei morti viaggia oltre la ventina, le battute razziste sulla dozzina, “cazzo” e “vaffanculo” si ritagliano un grande spazio, ma anche “stronzo” si fa rispettare. Due esplosioni. Non c’è un vero spirito dolente, non ci sono sottotesti, restiamo sul semplice. Infatti quando Khal Drogo non si accontenta del classico fist fight finale e tira fuori due asce, a stallone un po’ gli girano: “cazzo, giochiamo ai vichinghi?”. Risate in sala. Mission accomplished.

*non stiamo a sindacare sul “di genere”, sul cinema di serie A e B, sull’“esiste A e B?”, etc. facciamo che ci siamo capiti.

DISCONE – The Spindle Sect – Is Your Planet Safe?

Gli anni ’90 sono finiti da un sacco di tempo, ma agli Spindle Sect non è fregato un cazzo e hanno continuato a rockeggiare sempre, SEMPRE, fino ad arrivare oggi a pubblicare quello che si può a ragion veduta considerare il loro esordio, Is Your Planet Safe? [Casket Music]. Se fate parte di quei tizi dotati di ragione attorno al ‘97 ma che tuttavia oggi vivono come una liberazione la fine di quelle belle distorsioni PIENE con sopra un MC piuttosto che un vocalist, e sciacquano i panni nell’Arno di merda dei Baustelle o di altre sensazionali band futuristiche tipo i Franz Ferdinand, bè, sappiate che quello che davvero manca a questo decennio infame è un LA SEXORCISTO e che no, questo periodo non troverà mai la redenzione in un punto di fine paragrafo.

Ecco il punto ed ecco, sono un bugiardo ora, così come è bugiardo il rock’n’roll e soprattutto l’indie rock’n’roll d’oggigiorno che flirta con l’alta moda – altro che Sex Pistols -, ma se qualcuno di sincero qui c’è, non possono che essere gli spudorati londinesi Spindle Sect (nome dal significato ignoto: ho chiesto ai componenti del gruppo, non lo sanno, se lo rimpallano l’un l’altro) e le loro chitarre elettriche che, tra Jane’s Addiction, Beastie Boys, Faith No More e Vanilla Ice, sono più che altro chitarroni, e poi i capelli lunghi, la faccia magra e truce, il batterista che picchia duro ed è anche tecnico perché RECUPERIAMOLA questa capacità di suonare.

(RUTTO – pausa – RIPRESA).

Al cinema ci sono gli Expendables e di colonna sonora cosa vogliamo metterci, i Gang Gang Dance? Scherziamo o siamo seri? Se i Belle and Sebastian scrivono d’amore con le modelle morte (di noia) in copertina, gli Spindle Sect e quelli come loro, dalle copertine nere ingrugnite e i ganci nel ritornello e nel furgone (alcuni sono macellai nel tempo libero), suonano ol’-metal, Stallone-rock’n’roll in piccoli locali, sperando che i piccoli locali diventino locali grandi o addirittura FESTIVAL ROCK di quelli con fiumi di tedeschi e di birra e le corna fatte con le dita, e sul palco per sempre i Korn (ma ventottenni), Rob Zombie (come leader di una band) e un side project degli Slipknot.

Ricordate quando il nu metal si chiamava rap metal?

A Brixton! Rimangono bicchieri di plastica rotti a terra, l’aria calda irrespirabile, i roadie con le Reebok che smontano il palco. Pura nostàlgia, con l’accento sulla a.

Se solo Fred Durst fosse vivo oggi.

Ten fucking stars.

www.thespindlesect.com