DIME CAN, MA NO ITALIAN #1 – Storm{o}

Ghe xè poco da fare quando insieme all’onore supremo de essere discendente de un popolo barbaro che el gà fatto scempio delle carogne meze fighete de qualche pescadore etrusco ti ghè la sventura de esser nato montanaro: per mi che stago in campagna anche i 325 metri sul liveo del mare de Feltre i xè alta montagna. Ansi, dovunque no ghe sia la possibilità de far stare in orizzontal un Landini in folle xè montagna. Comunque el lato positivo xè che soprattutto col rifiuto del mondo civile -ragion per cui la xente che abita in montagna la xè mina tanto normal- nasse la vera cativeria, el morbo dell’infelicità che te fa vegner voia de andare ai concerti con altra xente matta de montagna, col muso pien de fero, a urlar robe a caso e finir pien de pacche a dormire sul marciapiè perchè questo se fa quando te voi sonar el scrimo e l’arcòr e questo l’è esatamente l’effetto ca fa ascoltare un disco dei Storm{o}.

Nati come na mucià de roba boscarola ma tranquila iè finì col diventare infermabili e inverì come quattro can da caccia dopo siè ore de viaio sul retro de un pickup Lada e, co l’Ep omonimo del 2007, xè rivà anca l’affetto insieme al disagio sentìo e condiviso dalla scena tutta. L’ultima roba ad essere vegnua fora xè uno split da sete polici insieme ai Icon Of Hyemes e l’è uno dei dischi mejo del 2009: la prova inconfutabile dell’ultima affermasion xè che ghè un toco storico che se ciama Inconsiderata Putrefazione (che el ghiera anca dentro l’EP del 2007 ma stavolta se sente meio perchè el disco l’è registrà ben e no dentro na malga) e sona più o meno come sonaria i Converge sotto pastiglioni bei grossi o come i primi Primus velocisà al 87,3% e con meno adenoidi. Mension d’onore per l’aver girà dal vivo insieme a la roba più bela della scena desìo-urlo-matità come Ramesses, Morkobot, Lento, A Flower Kollapsed e per essere stà sul palco de che la budela rovente dell’Ultimo AntiMTV Day. I sarà pure fermi col sonare e i avrà ancà registrà poca roba, ma ghesboro mi bisogna ca me li scolta almanco na volta all’ano, tipo sotto Nadale quando el resto del mondo tira fora el solito cofaneto marso de Sufjan Stevens.

NOTA DEL CURATORE: Nel suo continuo impegno sul campo alla ricerca delle radici cristiane del nostro popolo, bastonate.wordpress.com arruola un nuovo autore tra le fila. si fa chiamare tutancamion, lo trovate (spoiler) in giro per altri posti a nome Alex Grotto e l’ho convinto a parlarci nella sua lingua natale di cose che succedono in posti in cui la lingua natale è la sua. La rubrica si chiama DIME CAN MA NO ITALIAN perchè l’avevo visto scritto una volta su un muro in un paesello nel padovano. (kekko)

Mancaroni: LATTERMAN – No Matter Where We Go..!

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IL DISCO
Registrato nella camera da letto del chitarrista Phil Douglas con un budget totale di 200 dollari, interamente investiti nel noleggio di microfoni, No Matter Where We Go..! è un disco che ti esplode in faccia fin dalle prime battute dell’iniziale Doom! Doom! Doom! (non si conti l’inutile intro My bedroom is like for artists, part 2, trentacinque secondi di samples a cazzo e corde pigiate a caso, scazzi di feedback e pedaliera che si dimenticano prima ancora della fine), una bomba totale sganciata sul mondo con incoscienza e candore assoluti nell’estate 2005 da una Deep Elm sull’orlo del collasso. È una di quelle esperienze capaci di cambiare una vita dal momento stesso in cui ne si entra in contatto: un disco che ridefinisce fin dalle fondamenta il concetto stesso di “stare bene“, che brucia di vita e incita a lanciarsi a capofitto nella vita, che risveglia sentimenti sopiti dal tempo e arricchisce di nuove ed esaltanti sfumature espressioni quali “purezza”, “convinzione”, “intensità” e “onestà”. Con un’energia e una voglia di vivere impossibili da quantificare e irresistibilmente contagiose, con testi che eruttano spontaneamente dal cuore e dalle budella, sparati a perdifiato contro il vento, da urlare a squarciagola fino alla completa e irreversibile consunzione delle corde vocali; su tutto, una dichiarazione come Ain’t no matter where we go, our hearts will always follow, che è né più né meno il corrispettivo americano di Ovunque tu sia, dovunque io vada, saremo sempre unici. No Matter Where We Go..! testimonia una band in fiamme, allora al massimo delle potenzialità; un picco mai più raggiunto neppure dai Latterman stessi che, tempo un tour massacrante tra locali microscopici e appartamenti di chiunque fosse disposto a ospitarli e un altro album appena sufficiente (lo spompo We Are Still Alive, pubblicato meno di dieci mesi dopo), si scioglieranno repentinamente, probabilmente divorati dalla loro stessa totalizzante passione. Alcuni di loro hanno ricominciato da capo con altri nomi e altre band; ma dal 2005 e per sempre vivere bene significa Latterman.

PERCHÉ NON STA NELLE CLASSIFICHE DI FINE ANNO
Non ne ho la minima idea, e sinceramente non me ne frega un cazzo. Ma quello che penso è che va bene così, è giusto così. Ognuno ha quel che si merita.

PERCHÈ STA QUA DENTRO
Perché è bello. Da quando è uscito lo riascolto periodicamente e ogni volta mi fa stare bene, mi fa sentire vivo e mi restituisce il sorriso anche quando non ne avrei alcun motivo al mondo. È un concentrato di sensazioni positive, una sorta di greatest hits di tutto quel che dovrebbe essere la vita, e proprio non riesco a immaginare una sola ragione al mondo per cui possa non piacere ad anima viva.

Fuck Buttons @ Locomotiv, Bologna (18/10/2009)

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I Fuck Buttons su disco sono poco meno che merda di cavallo, il primo era qualcosa come l’album goa trance più noioso del mondo e questo nuovo più o meno la stessa roba con suoni migliori e in più la cassa dritta, sempre e comunque mezza idea ripetuta all’infinito e in ogni caso nulla che non fosse già stranoto alle orecchie del più tossico e rimbambito raver di bocca buona lo scorso decennio; ma è merda che dal vivo può suonare molto bene, specie a volumi inauditi contro le incolpevoli mura di un locale grande abbastanza da costituire efficace cassa di risonanza. Questa perlomeno è la speranza. Ad attirarci è anche la presenza nel bill di Chris Brokaw; ho perso il conto delle volte che l’ho sentito dal vivo, anche scandagliando tra le pagine del suo puntigliosissimo sito ufficiale non riesco a mettere ordine nella mia memoria (comunque mi rendo conto che non possono essere state meno di cinque o sei), ma ogni occasione è buona per ritrovare quello che ormai somiglia molto, nella nostra percezione, a un vecchio amico un po’ dissociato che conosciamo come le nostre tasche e che soprattutto conosce bene noi, e sa bene come parlarci arrivando dritto al cuore. Si capisce fin da subito comunque che non è la serata adatta a lui: il pubblico è disattento, molti non hanno la più pallida idea di chi sia, lui se ne frega e attacca un set sorprendente (anche se purtroppo abbastanza breve), respingente, ad altissimo coefficiente di autismo, più di tutte le altre volte che l’ho visto messe assieme. Chitarra elettrica e amplificatore, in poco più di venti minuti biascica due canzoni con la solita voce da casellante sull’orlo del suicidio, il resto è una colata inarrestabile di drones marmorei e disperatamente umani allo stesso tempo, angoscianti, spiazzanti e carichi di dolore come un urlo nel buio. Un impressionante flusso di coscienza che dispiace solo termini troppo presto; Chris ringrazia e se ne va, e qualche applauso gli arriva pure ma questa è roba che ti scava dentro. Lui è un gigante.
Dalle stelle alle stalle. Avevo già visto gli HTRK di spalla ai Liars nel 2007, ma il ricordo di loro si era completamente obliato nella mia mente, e appena attaccano mi rendo conto perché; loro sono due cinesi bruttissimi e una tipa sfatta che percuote una sottospecie di tamburo con la verve di un becchino la domenica pomeriggio e biascica cose con tono semilugubre annoiato a morte, e tutti e tre hanno l’aria di chi ti sta facendo un favore a starsene lì impalati a guardare la gente con sussiego. Dopo due pezzi ne ho già le palle piene della loro scialbissima copia carbone del post-punk austero e nichilista e antiumano “di una volta” e me ne vado al bar all’angolo. Per la cronaca, gli HTRK vengono pubblicizzati come “in assoluto uno dei gruppi preferiti di Sasha Grey“. Come dire: se questa è la freccia migliore che hanno al loro arco, chissà il resto. Non musica ma acqua fresca.
I Fuck Buttons iniziano male: in piedi uno di fronte all’altro, su un tavolo dispiegato tutto il loro armamentario, un tripudio di pulsantiere valvole fili spie luminose da mandare in fregola un elettricista pazzo, iniziano a schiacciare tasti a caso e parte un maelstrom indistinguibile di elettronichina free-scazzo che potrebbe essere l’inizio di Surf Solar o di qualsiasi altro pezzo di qualsiasi loro album, peraltro a volume ridicolo. Dopo tre minuti parte la cassa ignorante quindi il cerchio si restringe: deve per forza trattarsi di un pezzo (uno a caso) del nuovo disco. Loro si agitano come due ritardati che cercano di scoparsi una maniglia; comincio a chiedermi cosa cazzo ci sto facendo qui. Poi cambia qualcosa: non saprei dire esattamente cosa, e a posteriori proprio non riesco a isolare il momento esatto in cui mi rendo conto che questa merda funziona, il volume si alza lentamente ma inesorabilmente, comincio a sentire il pavimento vibrare e le mie budella attorcigliarsi, i suoni diventano belli, giusti, necessari, una sinfonia cosmica portatrice e produttrice di gioia e amore e sentimenti positivi in genere. D’un tratto mi viene voglia di abbracciare ogni singolo essere vivente. È rave nell’accezione più letterale e filologica del termine: sragionare, delirare, andare in estasi; non tutto è a fuoco e non tutto gira alla perfezione (il concerto è un’unica ininterrotta jam in cui i brani si incastrano l’un l’altro seguendo logiche diverse rispetto al canovaccio imbastito in studio), ma l’idea generale è di qualcosa di incredibilmente energico e profondamente positivo e endemicamente contagioso. Perso nel mio trip, ogni tanto riacquisto lucidità e mi volto a guardare quel che succede attorno a me; incredibilmente la stragrande maggioranza del pubblico non coglie, a parte qualche tarantolato sono tutti immobili a osservare il palco con occhio critico. Come se quel che sta succedendo là sopra fosse materia da premio Nobel, quando invece è roba stupidissima progettata con il solo scopo di far muovere il culo dimenandosi in modo imbarazzante e sudando come cinghiali. In ogni caso, è roba che solo live acquista un senso. Il set termina bruscamente, di colpo, e il silenzio arriva brutale, penetra prepotentemente il condotto uditivo dopo cinquantasette minuti spaccati di pura estasi mistica a livello esclusivamente epidermico. Mi sento bene.

PS la foto l’ho presa da qui cercando con google immagini.