tema: “La mia collezione di dischi”. Svolgimento:

Lui era uno che aveva smesso di comprare dischi da anni. E per comprare dischi si intende tutto quell’insieme di punti compreso tra gli estremi che chiameremo “Stereo buono” e “Appagamento” che disegnano il segmento dell‘ascolto. Tutto quel che rimane, tolto quell’insieme di punti, è compulsione spicciola e la compulsione spicciola è quella cosa che provi a soddisfare con il solo atto di, ma poi ti fermi due secondi e ti rendi conto che sei punto e a capo. Al massimo hai occupato spazio in una mensola o nello scaffale fatto di trucioli e unghie che vendono al NEGOZIO DI MOBILI SVEDESI: almeno così diceva Lui quando si fermava a fissare un punto imprecisato dietro la nuca di chi gli faceva le domande. Lui è uno che ha smesso di comprare i dischi perchè non gli rimaneva spazio in testa per farci stare altre voci, oltre a quelle che già sentiva anche durante il silenzio, che avrebbero potuto confonderlo ulteriormente. Quindi Lui aveva iniziato a collezionare gente che collezionava dischi, perchè quella la potevi fare stare zitta con del nastro adesivo sulla bocca e soprattutto nessuno se la sarebbe mai tenuta in modo fraudolento truffandoti e scambiandoti con i Guns N’ Roses quel vinile degli Spacemen3 che prestasti a qualcuna che ti volevi fare (VAFFANCULO! VAFFANCULO! urlava sempre quando gli veniva in mente). Aveva iniziato ad ammassare dischi, roba, in modo ragionatamente ossessivo come se dovesse prepararsi a qualcosa di devastante, tipo la cecità: Lui aveva questa fissa in testa secondo cui se in un momento indefinito della sua vita fosse rimasto privo della vista avrebbe potuto sopperire a tutte le sue mancanze buttando su dischi sul piatto. Gli sarebbe bastato fare dei piccoli tagli sul bordo della custodia di ogni singolo disco e lui avrebbe capito, usando il solo tatto, di che disco si trattasse: un braille fatto in casa, tipo due tagli vicini per il jazz, un angolo mancante per il punk, quattro tagli per trovare immediatamente Damaged. Poi gli venne la fissa che sarebbe potuto diventare sordo, anzichè cieco, e quella fu un’altra delle ragioni che lo spinse a collezionare gente che collezionava dischi: imbalsamandoli con i vestiti che indossavano al momento della cattura gli sarebbe bastato squadrarli soltanto una volta per capire i loro ascolti e ricollegarli ai suoi, reimmaginandosi tutti i pezzi e i passaggi che gli piacevano attraverso gli occhi fissi impauriti. Tendeva sempre ad evitare quelli con occhiali colorati e maglietta di Unknown Pleasures però, diceva che erano come le compilation scrause che si trovavano nel cestone dell’Autogrill (gli potevi leggere il disprezzo impresso sulle rughe degli occhi). Quando gli chiedevi di darti un altro motivo valido per collezionare gente che colleziona dischi al posto di farsi una normale collezione di dischi lui ti rispondeva che i vantaggi logistici erano non computabili talmente erano numerosi (sic.): i negozi seri di dischi che chiudevano non erano più un problema, o almeno non nel breve termine. Lui poteva trovare tutto quello che gli serviva, per la sua collezione di gente che collezionava dischi, semplicemente uscendo la sera per andare in Circoli dentro i quali non gli sarebbe nemmeno servito entrare, vaffanculo anche ai tesseramenti vari (VAFFANCULO! VAFFANCULO! urlava quando si ricordava delle file per fare sei tessere diverse per due serate in tre locali). Si appostava nei parcheggi, preparava il bastone con cui stordire il suo pezzo scelto tra mille e bam, primitivo senso di soddisfazione per aver deciso di prendere qualcosa dopo averlo atteso (sentimento andato in disuso vertiginoso nell’epoca dell’emmepitre-tutto-ora-e-subito). Lui era un dritto perchè quando lo catturarono gli sfondarono la porta di casa in sette poliziotti e lui, che non capiva, chiedeva se fossero lì perchè non aveva pagato il bollino SIAE per la sua collezione di gente che collezionava dischi.

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in giro per la rete:

L’idea di collezione di dischi, in realtà, non l’ho mai avuta. Un po’ perché ho vent’anni e si suppone che io abbia una vita davanti per collezionare cose, fare esperienze, prendermi una casa mia e infilarci le migliaia di dischi comprati con soldi che devo ancora iniziare a guadagnare. Però posso dire di avere vissuto per bene la collezione di dischi di mio padre, quella che s’impegnava a tenere in ordine fino a un certo punto, perché con due figlie piccole che ravanavano costantemente e felicemente tra la sua musica c’era da spazientirsi ma in fin dei conti c’era anche da esserne soddisfatti.
(Lachesi)

Mi ripeto che li ascolterò quando riuscirò a comprarmi un impianto con i controcazzi che non me li graffi e per il momento mi accontento di metter su una playlist, tirar fuori il vinile, ben attento a non lasciare ditate, e leggermi testi e credits rimirando l’artwork in formato 30×30, cosa che, peraltro, accade sempre meno spesso. Il tempo a disposizione è quello che è. Non so quanto dischi ho, mio padre dice troppi, io non ho mai avuto voglia di contarli, la mia malattia arriva fino ad un certo punto. E’ che credo di essere davvero ossessionato dalla musica.
(Lenny Nero)

DISCONE: Anal Cunt, The Old Testament 1988/1991 (Relapse)

Alle orecchie di uno cresciuto col mito del grindcore (mancarone) come possono essere io, il brutto grindcore non esiste. Nel senso che le sue caratteristiche peculiari -sostanziale inascoltabilità ed assenza di logiche interne- lo divide in grindcore bellissimo e non-grindcore. non puoi dare un giudizio estetico a una musica del genere, non puoi metterti a pensare a chi ha talento e a chi non ne ha, eccetera. Ci sono gruppi incredibili che puoi considerare maestri ma che per certi versi sono comunque dei fake mostruosi. La maggior parte dei gruppi grind che hanno iniziato a suonare grind hanno smesso di farlo nel giro di brevissimo e hanno intrapreso una sorta di carriera come musicisti, anche buoni, anche ben dotati, anche con dischi bellissimi. Non-grind. Il grind (mancarone) è sempre stata un’altra cosa, una specie di idea pura dietro la musica, un concetto buono sì e no per farsi delle seghe mentali fini a se stesse e/o pensare che la cultura pop di maggioranza sia tutto sommato un mucchio di merda (verissimo, peraltro). Un modo come un altro per buttar via gli anni migliori della propria esistenza dietro qualsiasi cosa che non fossero studi di marketing, analisi, semiotica e teoria dell’organizzazione. Non puoi capirlo a sedici anni, il grindcore. Neanche a vent’anni. Neanche a trentacinque. Se lo capisci non è grindcore. Se ti piace non è grindcore. Se ti senti in sintonia con quello che l’ha inciso non è grindcore. Questo pezzo non parla di nulla. Seth Putnam se n’è andato alla chetichella nel giugno di quest’anno, non sono stati messi in piedi funerali di stato, nemmeno un topic celebrativo sul forum di Metallus (mancarone), tra l’altro credo ormai chiuso da un decennio. Seth Putnam era una specie di John Lydon del metal: non particolarmente capace e dotato di per sè, non particolarmente in grado di scrivere cose epiche, ma abbastanza conscio di quel che s’ha da fare e -paradossalmente- tra i pochi dotati della volontà di farlo, il tutto senza un briciolo di cognizione di causa in merito a discorsi sulla domanda, sulla natura della musica, su ciò che va fatto o non fatto. Nella nutritissima discografia di Seth Putnam e dei suoi progetti è rintracciabile qualsiasi forma musicale, nella maggior parte dei casi ridotta ad una parodia ridicola e spompata, come quando un compagno di classe antipatico porta avanti uno sfottò su tuo cugino handicappato in terza media. Seth Putnam era un personaggio sgradevole, intendo nella cultura pop di cui sopra. Ha messo la firma su alcuni dei massimi capolavori del metal anni novanta, ha veleggiato incosciente (quattro o cinque overdosi lungo il decennio) tra un progetto musicale e l’altro, ha continuato fino alla fine a farsi a fettine e a prendersi i pomodori, scongelando il marchio Anal Cunt (la sua casa base, il punto da cui tutto inizia) poco prima di andarsene. L’estremo paradosso della vita artistica di Seth Putnam è che il suo testamento è una raccolta di demo ed EP pubblicata una settimana fa da Relapse (mancarone) e che mette insieme i primi tre anni di attività della band, una serie interminabile di cacofonie inintelligibili registrate col walkman dentro la tazza del cesso e brutali come niente che sia stato registrato prima, dopo o durante. Musica che sembra già la parodia avvoltolata di se stessa o della musica che ad essa si ispira, che per metà del minutaggio sembra un esercizio sportivo e per l’altra metà la cosa più lucida mai partorita dalla mente umana. Viene da scorrere mentalmente la lista dei dischi/gruppi che più ci hanno detto qualcosa (o no) negli ultimi dieci anni: Hospitals, Hunches, Sightings, Lightning Bolt, il giro Load in generale, n-collective, postcore, brutalità assortite, i migliori Converge, la migliore HydraHead, cinesi, harsh-noise, shitgaze (mancaroni). È triste scoprire che è quasi tutta la versione manco troppo ripulita di cose buttate dentro il calderone alla cazzo di cane vent’anni fa da qualcuno che ci ha tirato su sì e no uno stipendio da barbone e un briciolo di credibilità presso altri tossici col pallino del metal e del punk. È triste scoprire anche che l’album a cui (per motivi strettamente musicali) ci sentiamo quasi in obbligo di dare la palma di DISCO DELL’ANNO 2011, capslock voluto, è una raccolta di roba smerciata con scarso successo tra il 1988 e il1991. Avolte le cose non girano come vorresti. Seth Putnam. Mancarone.

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