Neutral Milk Hotel, Anna Frank, la peste e gli zombie.

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Qualche tempo fa i ragazzi di Flying Kids hanno iniziato a mettere insieme un libro collettivo sull’indie rock ’80 e ’90. Ognuno ha preso un gruppo e ha scritto il pezzo che preferiva. Il libro verrà pubblicato il 21 maggio, si intitola Non ti divertire troppo. In copertina c’è un disegno di Guy Picciotto sul canestro fatto da Zerocalcare. Quello che state per leggere è il primo estratto del libro, parla dei Neutral Milk Hotel ed è scritto da Capra.

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Se ti ascolti di volata il disco In the aeroplane over the sea capisci subito che con ottime probabilità si tratta di un disco di fricchettoni. Se ti leggi i testi, la probabilità si fa quasi certezza. Scoperta della sessualità, acqua, cime di montagne e cime degli alberi, fiori carnosi, sole e sempreverdi e primavera, musica che risuona nelle strade, la Terra vista da una stella, ceneri che da un aeroplano cadono verso il mare e accenni a una religiosità messianica non troppo classificata.
Tutto tenderebbe verso, ma non tutto.
Perché c’è anche una forchetta piantata in una spalla, un cervello che sprizza fuori dalla testa, una ragazza “nata in una bottiglia-razzo nel 1929”, “l’unica ragazza mai amata”, “nata con le rose negli occhi” e “sepolta viva una notte del 1945”, e “il fantasma di Anna tutto intorno”: “Anna’s ghost all around / hear her voice as it’s rolling and ringing through me / soft and sweet / how the notes all bend and reach above the trees”.

La sua voce attraverso la mia. “Sua” è riferito ad Anna Frank.
Non si tratta di una dietrologia forzata. I riferimenti sono chiari, e pure palesati da Jeff Mangum (che è quello che nella band faceva i pezzi) in interviste e ai concerti del tour.
È interessante questa roba? Sì.
Le due figure, dell’io narrante e di Anna Frank, si mescolano, e i reciproci ricordi a volte si confondono e a volte si staccano. L’adolescenza di Jeff diventa l’adolescenza di Anna, assieme a storie di scoperte del corpo, di liti in famiglia, di fantasmi.
Importante: l’album viene scritto ad Athens, una città della Georgia, dove tutta la band e rispettive compagne e sicuramente un fracasso di fattoni si sono ritirati (freak alert!) a vivere in una casa fuori città.
Ci interessa sapere che il pezzo “Ghost” è stato scritto perché pensavano che ci fosse un fantasma nel bagno? Andiamo su.
Quello che interessa davvero è che fare un disco, una ventina d’anni fa, poteva significare entrare in quarantena. Cercare un isolamento, o esserci costretti. In una sorta di bilanciamento interno-esterno, un contagio che non deve trapelare nel mondo, e un mondo che non deve interferire col contagio.
Questa cosa c’entra con Anna Frank, e il suo soffitto sul canale Prinsengracht di Amsterdam.
Ed entrambi c’entrano con la peste, e il raccontare la peste.

Prima descriverò come un lager sia affine ad una città colpita dalla peste, poi parlerò degli appestati come zombie, infine come si può parlare della peste e tutto il resto e che senso possa avere.
Andiamo a vincere questa partita.

Il campo aveva l’aria di aver subito un’epidemia: vuoto e morto.
E. Wiesel, La notte

Partiamo dal contagio.
«L’Ebreo non soltanto è impuro e contamina con il suo stesso contatto, ma impuro è tutto quanto gli appartiene o partecipa alla sua vita. […] I tribunali distribuiscono senza economia pene di prigione e reclusione per contaminazione razziale (fin dal 1936 Streicher giudicava queste sanzioni insufficienti e chiedeva l’introduzione della pena capitale: il suo desiderio venne esaudito nel 1939) e la giurisprudenza specifica che baci e semplici contatti corporali costituiscono reati di contaminazione razziale: “La contaminazione razziale è un crimine peggiore dell’assassinio!” proclama un presidente di tribunale a commento del proprio verdetto.» (Poliakov 1955: 26)
L’ebreo contagia. Questa era la minaccia, il suo peccato peggiore. L’ebreo era il flagello da cui difendersi, il morbo che andava estirpato. L’ebreo era il capro espiatorio.
Ne L’uovo del serpente (1977) di Bergman, la lettera del fratello ebreo suicida dice: «Un flagello sta per abbattersi su di noi.» Non l’avete visto? Guardatelo.
Speer riceve in confidenza dal suo amico Hanke – che, ve lo dico se volete fare i belli durante una cena, era pure il Gauleiter della Slesia – un chiaro avvertimento riguardo ai lager: «Mi chiese di non accettare mai l’invito a visitare un campo di concentramento nel Gau dell’Alta Slesia. Mai, per nessuna ragione. Aveva visto uno spettacolo che gli era vietato descrivere e che non era neanche capace di descrivere.» (Todorov 1992: 135).
Tucidide per la peste di Atene usa le medesime parole. (Primi stupori)
Nel verbale stenografato di una riunione del Consiglio dei ministri del 12 novembre 1938 leggiamo:
«Goebbels:  Poi bisogna impedire che gli Ebrei vadano in giro pavoneggiandosi per i giardini pubblici tedeschi. Segnalo a questo proposito la propaganda mormorata dagli Ebrei nei giardini del Fehrbelliner Platz. Ci sono degli Ebrei che non hanno l’aria di esserlo; si siedono vicino alle madri tedesche e ai bambini tedeschi e cominciano a borbottare lamentele contro di noi e ad appestare l’aria» (Poliakov 1955: 44)
Ha davvero detto “appestare”? Pazzesco.
Attenzione. Per par condicio ci tengo a sottolineare che:
«I movimenti totalitari moderni, di destra come di sinistra, hanno mostrato una tendenza particolare – rivelatrice – a servirsi di immagini di malattia. I nazisti proclamavano che la persona di origini “razziali” miste era come un sifilitico.» (Sontag 1992: 77)
Insomma, la razza inferiore contamina, perciò dapprima si procede con l’evitare ogni contatto, camminare in zone separate delle strade, vietare l’ingresso in negozi e servizi per ariani, ecc; poi, con il rinchiudere i veicoli del contagio in zone delimitate e dominabili: prevenzione cautelativa.

«Nelle grandi città i ghetti furono cinti da mura; in altre località si trattava di quartieri delimitati, all’ingresso dei quali stavano cartelli in lingua tedesca che avvertivano: “Pericolo d’epidemia; potete entrare a vostro rischio e pericolo!”» (Poliakov 1955: 67)

L’isolamento del ghetto insomma è una quarantena (proprio come avevo detto all’inizio!) dove manca il cibo, le forze vengono meno e dove si vive un’ininterrotta sfida con quello che ci si ritrova ad essere ma che, prima della peste, non si sospettava minimamente di poter essere.
«Una fame rabbiosa e nuovi pericoli a ogni istante incombevano sugli abitanti del ghetto: la lotta per la vita era diventata lo scopo essenziale della loro esistenza. Condizioni di questo genere sono propizie per mettere a nudo la natura più intima degli uomini, per far cadere le maschere convenzionali, esacerbando i conflitti di ogni specie, accentuando i contrasti.» (Poliakov 1955: 134)
Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona “a chi ha sarà dato; a chi non ha, sarà tolto”. Nel lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, le legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti. (Levi 1999: 80)
Il ghetto ha poi alcune caratteristiche di un enorme lazzaretto a cielo aperto: «Decine di disgraziati morivano nelle strade; i passanti ricoprivano frettolosamente i cadaveri con giornali, in attesa che il carro delle pompe funebri venisse a raccoglierli.» (Poliakov 1955: 127)
Tra gli appunti di Mary Berg riguardo la vita nel ghetto si legge, nei giorni 1-2 ottobre 1942:
«Di giorno le strade sono quasi deserte, si ha un po’ di circolazione solo alle sei del mattino, quando la gente va a lavorare. […] Gli ebrei sentono di continuo su di loro l’ombra della morte, ma ciascuno pensa, malgrado tutto, di avere qualche possibilità di sfuggire. […] I mariti sono stati separati dalle mogli e dai bambini, i bambini dai genitori, e ciascuno alloggia dove riesce a trovar posto.»
Nel ghetto, come nel lager, non si potevano ricevere pacchi, l’esilio era ineludibile (o quasi), la sensazione di chi vi abitava era di trovarsi completamente sperduto e perduto. L’abbandono. Se si volesse riassumere in 10 parole quello che succede quando una città viene presa dalla peste, direi queste: paura, inquietudine, fobia, follia, smarrimento, mestizia, crudeltà, morte, innocenza. E abbandono. (Sembrano paroloni vuoti, non credo sia così, ora non c’è spazio, ma se non ci credi ho un centinaio di titoli nella bibliografia completa e te li passo)
E i lager sono città: con prigioni, cliniche, bordelli, strade,… in uno dei campi c’era persino uno zoo. E dei monumenti: oggi i turisti si fanno fotografare davanti ai forni crematori.

Detto ciò, aggiungiamo un tassello a questo simpatico paragone lager-peste.
Al pari della peste, la politica nazista mirava a spersonalizzare i propri reclusi.
Una legge del 26 agosto 1938 sanciva che ogni ebreo doveva prendere il nome di Israele e ogni ebrea il nome di Sara.
E come sappiamo bene fin dalla terza elementare, al posto del nome ai detenuti viene invece dato un numero. «E il nome è il primo segno distintivo dell’individuo. […] Uccidere due persone è in un certo senso più difficile che ucciderne duemila: un numero elevato finisce quindi col fare lo stesso effetto. “Li ho raramente visti come individui. Era sempre un’enorme massa”, dichiara Stangl. (Continuiamo tutti a reagire così all’annuncio di migliaia di morti; la quantità depersonalizza le vittime e automaticamente ci depersonalizza: una morte è un dolore, un milione di morti un’informazione)» (Todorov 1992: 176-7)
Ci piazzo pure una citazione da uno dei testi dei Neutral Milk Hotel che non guasta in un pezzo sui Neutral Milk Hotel:

And I know they buried her body with others / her sister and mother and 500 families / and will she remember me 50 years later / I wished I could sav her in some sort of time machine – Oh Comely

Salto indietro di 50 anni circa: a Buchenwald un altoparlante scandiva: «Ogni Ebreo che desideri impiccarsi è pregato di avere la cortesia di introdurre nella bocca un pezzo di carta recante il proprio nome al fine di poter procedere all’identificazione» (in Poliakov 1955: 40)
A tal pro, un progetto che Himmler tentò di mettere in opera più volte, ma non riuscì mai a portare a compimento, era quello di «giungere alla “soluzione finale” collettiva, non attraverso una soppressione fisica sanguinosa e immediata, ma per mezzo della sterilizzazione o castrazione in massa: così da ottenere l’estinzione efficace della razza ebraica in forma più lenta, ma parimenti sicura.» (Poliakov 1955: 337).
Non più uomini ma automi. (Sto per introdurre un nuovo tassello, non lasciamoci proprio adesso.)
Il film Il grande uno rosso (1980) di Samuel Fuller riesce a mostrare in maniera eloquente questo automatismo spersonalizzante di un manipolo di soldati – macchine da guerra – che, sul finale, si ritrovano, in Cecoslovacchia, alle porte dei campi, dove sopravvivevano altri automi come loro, solo più magri e disperati. Non l’avete visto? Guardatelo.
L’imperativo principe era: obbedire. Condizione mentale cui non soggiacevano soltanto i condannati a morte, ma sotto la cui egida rientravano tutti: deportati e guardiani.
«L’atteggiamento di docile sottomissione spersonalizza chi vi si assoggetta trasformandolo in un puro ingranaggio di una immensa macchina» (Todorov 1992: 183)
«I popoli adorano l’autorità» (Baudelaire 1970: 46), taaac.
E l’autorità dei regimi è il compimento della hybris dell’uomo.
Tra le massime del Mein Kampf  si annoverano: “le masse sentono cose forti e nettamente definite”; “alla gente piace essere comandata”; “vuole un insegnamento intollerante”; “detesta i dubbi”; “soffre pochissimo le beffe più impudenti”.

Le fosse comuni sono l’ultimo passaggio.
Morte senza lapide, senza memoria, senza il proprio spazio vitale (sic!). Morte senza dignità. Morte oscena (letteralmente). Morte che accomuna: unico tratto distintivo dell’essere umano. E unico tratto distintivo dall’automa.

Omnia denique sancta deum delubra replerat / corporibus mors exanimis oneratque passim / cuncta cadaveribus caelestum templa manebant, / hospitibus loca quae complerat aedituentes  (Lucrezio, De rerum natura,VI 1272-75)

Obbedire. La giustificazione di tutti i passaggi intermedi: “Stavo obbedendo agli ordini”. Leggi: automatismo. Nel senso di: conservazione della specie. In particolare della propria specie singolare. Come i batteri e i virus.
Il fatto che i vampiri trasmettano la peste getta un’ombra curiosa sulla faccenda.
Il Nosferatu di Murnau porta con sé un’epidemia di peste verso l’Olanda, e sarà solo il sacrificio di una vergine a stroncare il suo diffondersi.
Il Nosferatu di Herzog è accompagnato da un’orda di undicimila topi che stillano contagio nel loro vorace accumularsi in ogni angolo di una piazza mollemente agghindata da ultimo giorno sulla terra.
«Il vampirismo è contagioso» afferma l’eremita del convento nel racconto I Vurdalak di Alekséj Tolstòj.
Nosferatu significa non-morto. I cadaveri dissepolti di uomini ritenuti vampiri presentavano corpi ben imporporati dal rossore di una salute traboccante.
Il vampiro è un non-morto votato all’immortalità.
Chi viene morso da un vampiro diventa come lui: uno zombie.
È un personaggio sofferente, castigato nella sua non vita ibrida e notturna.
Il Nosferatu di Herzog – Klaus Kinski – incarna perfettamente questa solitudine esistenziale: ha i tratti di inespiabile inquietudine dell’appestato: di chi ha contratto il morbo e ne vive smarrito l’isolamento.  Non l’avete visto? Sciocchi.
Caratteristica degli zombie è di camminare tutti nella medesima direzione, pur senza comunicare l’uno con l’altro. E senza potersi mai voltare indietro. Imboccata una strada, quella rimane fino alla fine. L’unica strada – l’unica finalità – è quella del contagio.
Come per i batteri: conta solo la conservazione della specie.
Se la peste scatena negli uomini un egotismo irrefrenabile, ci rivela che in ogni natura suppura, da sempre, l’istinto più ovvio: quello della sopravvivenza. E la città appestata perciò si trasforma in un’orda di zombie incomunicanti, eppure precisi e omologhi, dove è salda e presente, nella testa di tutti, la rotta da prendere.
Nel film di Romero La terra dei morti viventi (2005), gli zombie vengono chiamati “appestati”. Va visto eh.
Zombie sono i reclusi, zombie sono i guardiani. Zombie sono i salvati.
«Chi è stato contemporaneo ai campi è per sempre un sopravvissuto: la morte non lo farà morire.» (Blanchot 1990: 163)

La Peste. Ho scelto il dominio e ora sapete che è cosa più seria dell’inferno. […] Ed era fatto piuttosto bene, e non mancava l’idea; ma non c’era tutta l’idea… Se volete la mia opinione: un morto rinfresca, ma non rende. In una parola: non vale uno schiavo. L’ideale è di ottenere una maggioranza di schiavi vivi con l’aiuto di una minoranza di morti ben scelti. Oggi la tecnica è perfetta. (A. Camus, Lo stato d’assedio)

Zombie dentro e zombie a controllare quindi. E chi stava fuori? Inerzia.
Anna Politkovskaja scrive queste parole sull’acquiescenza dell’opinione pubblica russa nei confronti della condizione dei ceceni.
«E la società? E il popolo? In linea generale non ci sono slanci di compassione né proteste sociali che le autorità si sentano in dovere di prendere in considerazione. Al contrario, la società perversa reclama ancora una volta benessere e tranquillità al prezzo della vita altrui. Ed elude la tragedia del Nord-Ost preferendo credere al lavaggio del cervello di Stato anziché alla parola di un vicino che è stato tenuto in ostaggio.» (Politkovskaja 2003: 146)
Di nuovo la storia. Putin usa il medesimo motto di Stalin (che è un motto evangelico!): “Chi non è con me è contro di me”.
La collettività è assuefatta, come drogata, e…. vampirizzata! Punto esclamativo!
Ora parte una citazione da un libro bellissimo che cerco di comprare da circa 10 anni e mai lo trovo: «L’autorità esercitata dal vampiro è una forma di carisma, quel potere che consente al capo di inibire la volontà dei suoi seguaci e di indurli a sacrificarsi a vantaggio delle sue mire personali. Hitler, come abbiamo già rilevato, vedeva le masse come femminili: la capacità di insinuarsi nella mente di un popolo e di convogliarlo verso un certo fine è una forma di seduzione sessuale. Politica e teatro erano interconnessi già da molto prima dell’età dei mass media. L’attore dotato di presenza scenica e di intrinseca autorità domina le platee. L’oratore “affascinante” è quello che opera, alla lettera, un incantesimo. Egli “cattura” l’attenzione. Il pubblico è “avvinto” o “soggiogato”, vale a dire asservito (dai vincoli o dal giogo della schiavitù), quando nessuno muove un muscolo né chiacchiera col proprio vicino, e c’è un tale silenzio “che si sentirebbe volare una mosca”. Le metafore di sesso e di potere si sprecano a riguardo delle esibizioni di attori e di politici. L’oratore ha il dominio della dimensione della comunicazione visiva. Tutti gli occhi sono fissi su di lui, come ipnotizzati. Il pubblico è rigettato nell’immobilità e nel mutismo, che sono da sempre le armi in possesso del demone.» (Paglia 1993: 444)

Hitler era il capocomico che seduce e soggioga. Chi segue True Blood ha qualche immagine in più.
Per Agostino il teatro era un fetido bubbone. In tempo di peste i teatri londinesi furono chiusi.
«Indubbiamente le voci dei nemici dei teatri si facevano più stridenti, urlando che Dio aveva mandato la peste perché Londra fosse punita dei suoi peccati, e soprattutto della prostituzione, della sodomia e della recitazione» (Greenblatt 2005: 255). Abbiamo fatto un salto indietro di circa 4 secoli, tra True Blood e Shakespeare, giusto per.
Il potere totalitario, in questo senso, è una messa in scena: poggia solo su se stesso.
Tautologia irrefrenabile che non lascia scampo. Sipario.
Anche in questo caso la peste nel lager proviene dalla peste di fuori, quella dello stato: al vampirismo dei detenuti fa da specchio il vampirismo delle masse.

Tassello numero tre (ho messo un numero a caso).
Animalità. L’aspetto che forse maggiormente atterrisce nei campi è la ricerca indefessa dell’animalità del proprio capro espiatorio. Più è capro e più è espiatorio. [Ma con una premessa basilare: e cioè che «né la tortura né lo sterminio hanno un benché minimo equivalente tra le bestie.» (Todorov 1992: 123)]

Ormai non mi interessavo ad altro che alla mia scodella quotidiana di zuppa, al mio pezzo di pane raffermo, il pane, la zuppa: tutta la mia vita. Ero un corpo. Forse ancora meno: uno stomaco affamato. Soltanto lo stomaco sentiva il tempo passare. (E. Wiesel, La notte)

È la stessa nostra umanità che ha prodotto Auschwitz o Kolyma, giusto qualche generazione fa, e dell’umanità sono parte inestricabile: la bestialità degli stermini non è ferina. Eppure, il rigetto spirituale che istilla, ci costringe a dire, in un qualche modo, che non è neppure una bestialità umana. Un aggettivo sensato potrebbe essere: innaturale.
Nel Decameron Boccaccio scrive che gli uomini si ritrovano ad essere come animali perché muoiono «indifferentemente». Rendere i deportati degli animali è la causa, e il sintomo, del tentativo del lager di generare indifferenza.
«Goering: Benissimo; metteremo a disposizione degli Ebrei una parte della foresta. Alpers avrà cura di farvi arrivare le varie specie di animali che assomigliano maledettamente agli Ebrei: il cervo, per esempio, ha il naso adunco come loro» (Poliakov 1955: 44), e risate attorno al tavolo.
Le baracche dei campi sono edifici che potrebbero essere «scuderie», dice Resnais in Notte e nebbia (1960). Guardare!
Ricerca disumanizzante che trova la sua tragica perfezione esiziale nell’uso del gas – originariamente utilizzato per i parassiti.
«Molti parassiti, cimici, ecc., infestavano le antiche caserme di Auschwitz e, per distruggerli, si era ricorso a comuni mezzi di disinfestazione. Un fornitore della Wehrmacht, la ditta “Testa”, consegnava un gas a base di acido prussico, brevettato come “Cyclone B”; sul posto se ne trovava un ingente quantitativo. Date le circostanze, l’idea di applicare quei gas ad esseri umani per sopprimerli, non esigeva probabilmente un eccessivo sforzo intellettivo.» (Poliakov 1955: 270)
La propaganda nazista mirava a sottolineare questa sottospecie biologica degli ebrei.
Erano cani, scimmie, maiali. Quando erano di buonumore l’ebreo diventava una “forma di transizione tra l’animale e l’uomo nordico”.
La faccenda non cambia molto se ci si sposta alle purghe comuniste degli anni ’30: nel linguaggio sovietico di allora si usavano espressioni del tenore di “ai cani, una morte da cani”, “schiacciamo il canagliume”, etc.
Attualmente in Russia un epiteto con cui si può tranquillamente appellare un ceceno è “lurido topo di fogna”.
Non solo gli ebrei, anche gli Slavi andavano trattati come bestiame. E persino gli Alsaziani, tuonava Himmler, «sono un popolo di maiali».
E come coi maiali, non si buttava via nulla. Dai cadaveri dei campi: capelli per fare tessuti, ossa per fare concimi, corpi per fare saponi, epidermide per fare fogli da disegno. I filmati degli eserciti alleati al loro arrivo nei campi ci mostrano capannoni enormi in cui erano stivate montagne di capelli, montagne di orologi, montagne di denti.
Sempre in Notte e nebbia vediamo dei cadaveri che si confondono in mezzo a cataste di legna: i crani bianchi delle salme sembrano sezioni di tronchi di abete.

Ma l’animalità non è generalizzata e senza distizinzioni. Todorov ama ripetere che “Se non c’è scelta, non c’è morale”. Eppure, anche nei campi, a pochi passi dall’estremo, là dove si perde la possibilità di scelta, ci sono stati uomini in grado di scegliere tra l’automa e l’essere umano.
«Jorge Semprun, superstite di Buchenwald, scrive: “Nei lager l’uomo diventa un animale capace di rubare il pane di un compagno, di spingerlo verso la morte. Ma nei lager l’uomo diventa anche un essere invincibile capace di condividere fino all’ultima cicca, fino all’ultimo pezzo di pane, fino all’ultimo respiro, per sostenere i compagni”» (Todorov 1992: 43)
Sono due, essenzialmente, i modi in cui la logica disumana dei campi viene scalfita: o con il sacrificio eroico, o con l’altruismo quotidiano.
“L’insurrezione non è stata che un modo di scegliere la nostra morte”, dicono gli insorti del ghetto di Varsavia, «ma la differenza tra lo scegliere la propria morte e subirla è immensa: è la stessa che distingue l’essere umano dagli animali. Scegliendo la propria morte si compie un atto di volontà e si afferma così la propria appartenenza al genere umano – nel senso pregnante del termine.» (Todorov 1992: 21)
Sette sono state le persone che hanno aiutato la famiglia Frank e gli altri 4 esiliati nell’alloggio segreto durante di due anni di reclusione volontaria.

Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire.
A. Camus, Il mito di Sisifo

Pare incredibile, ma mi avvio già alla conclusione.
La vicenda de La peste di Camus è semplice e abbastanza nota.
E, credo, altrettanto noto è l’intento di «esprimere il soffocamento di cui tutti avevano sofferto, l’atmosfera di minaccia e di esilio in cui erano vissuti durante la guerra, dare un’immagine di coloro che avevano avuto in essa la parte del tormento silenzioso e morale. Propositi confermati in una lettera a Roland Barthes dell’11 giugno 1955, in cui si legge che il contenuto evidente del romanzo è la lotta della resistenza europea contro il nazismo.» (Vetturini 2003: 21) Se non era noto, ora lo è.
Camus definisce la peste, e lo fa in maniera definitiva.
L’aggettivo definitivo conserva, credo, un certo spettro di significati che vanno messi tutti assieme sul desktop.
È definitivo ciò che non merita più ulteriori modifiche o miglioramenti. Definitivo appartiene a definire, e perciò a definizione, e cioè: recintato, incasellato, spiegabile?, conoscibile. Ma definitivo non manca neppure di lasciar odorare un vago sentore escatologico, una prospettiva di sbieco sulle cose ultime, una risoluzione che sposta l’accento sul sempre. 
L’esilio della città di Orano (la città della peste di Camus) è un esilio specifico, e definito. Ma quest’esilio coartato dalla peste, se sfaccettato negli uomini che la vivono, nei personaggi che Camus avvicina, diventa un esilio metafisico.
La peste di Camus è grande perché parla della peste di sterminio, e perché parla della peste.
«Il romanzo di Camus non è, come a volte si sostiene, un’allegoria politica in cui lo scoppio della peste bubbonica in una città portuale del Mediterraneo rappresenta l’occupazione nazista. La peste di cui scrive non è punitiva. Camus infatti non eleva protesta contro nulla, né contro la corruzione o la tirannia e neppure contro la mortalità. La peste non è altro che un avvenimento che serve da modello, l’irruzione della morte che conferisce alla vita un senso di gravità. Il suo uso della peste, più epitome che metafora, è insieme distaccato, stoico, consapevole – non comporta un giudizio e non lo sollecita.» (Sontag 1992:  146-7)
Nessun giudizio, vero. Ma Camus sceglie di essere morale.
«Quando scoppia una guerra, le gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida.” E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni.» (Camus 2004: 30, da cui tutte le citazioni che seguono)
La peste è la storia di un medico, Bernard Rieux, e delle persone che incontra durante il disastro. Rieux riesce a darsi tutte le risposte possibili, di fronte al male. Quelle impossibili, non se le pone. Sarebbe insensato. È un romanzo dove le persone si parlano sul serio. Dove i personaggi arrivano a conoscersi, e il lettore li può conoscere. Io li conosco.
C’è comunicazione. Ed è una comunicazione che nasce assieme al male.
«Ho avuto un bel dirgli che la sola maniera di non esser separato dagli altri era, dopo tutto, avere una buona coscienza; mi ha guardato malamente e mi ha detto: ‘Allora, a questo patto, nessuno è mai con nessuno’. E poi: ‘Lei può ancora andare, glielo dico io; la sola maniera di mettere insieme le persone è ancora mandargli la peste. Ma si guardi intorno!’» (Camus 2004: 150)
Chi ha vissuto l’ultimo terremoto nella bassa modenese legge questa frase sorridendo.
Se è impossibile avere una «buona coscienza», non è tuttavia impossibile «non esser separato dagli altri».
Leopardi, nel La ginestra, usa parole che Camus sicuramente ha ripetuto a memoria un sacco di volte: «E quell’orror che primo / Contra l’empia natura / Strinse i mortali in social catena»
Davanti all’orrore, davanti all’immotivata peste, che è peste che non punisce e non giudica, non flagella e non castiga, Rieux non cerca faziose eziologie, o definizioni calzanti.
Rieux si mette il camice.

«“Lei crede in Dio, dottore?”
Anche questa domanda era posta con naturalezza, ma stavolta Rieux esitò.
“No, ma che vuol dire questo? Sono nella notte, e cerco di vederci chiaro. Da molto tempo ho finito di trovare originale la cosa”.
“Non è questo che la divide da Paneloux?”
“Non credo. Paneloux è un uomo di studio, non ha veduto morire abbastanza: per questo parla in nome d’una verità. Ma ogni piccolo prete di campagna, che amministra i suoi parrocchiani e ha sentito il respiro dei moribondi, la pensa come me. Curerebbe la miseria prima di volerne dimostrare la perfezione”.» (97)

Quando a Marek Edelman, ebreo di Varsavia sopravvissuto alla Shoah, viene chiesto perché ha scelto la professione di medico, lui risponde: «“Come medico posso essere responsabile della vita umana”. “Ma perché vuoi esserne responsabile?”. “Probabilmente perché tutto il resto mi pare meno importante”» (Todorov 1992: 25)
Se c’è un senso di fronte al male senza senso, che sia la peste o la guerra o la morte di una figlia, «di fronte all’assurdità quotidiana dei campi di concentramento», se c’è qualcosa che spolvera via un po’ di quella assurdità, se si cerca un gesto con cui recuperare un po’ di perfezione, «aiutare una persona, o semplicemente far caso ad essa, è un atto ricco di senso.» (Todorov 1992: 88)
Se chiedessimo a Riuex dove trova le sue risposte, ci direbbe che «Semplicemente, quando si è medici, ci si è fatta un’idea del dolore e si ha un po’ più di fantasia.» (31)
Farsi un’idea del dolore: non trascurarlo, non essere distratti.
Farsi un’idea. Non ignorarlo.
«La nostra cronaca volge alla fine. È tempo che il dottor Bernard Rieux confessi di esserne l’autore; […] Chiamato a testimoniare» (230)
Rieux è scrittore. Cioè è qualcuno che ha un «po’ più di fantasia» per poter parlare del dolore.
Per dare qualche risposta, fin dove si può. Oltre, è questione di perfezione. Di cui non si è capaci. Perché non ne si è padroni. E per cui bisogna rassegnarci. Ma senza risentimento. Con umiltà vigile. Attiva.
«Chi desidera ma non agisce, alleva pestilenza», è uno dei Proverbi dell’inferno di Blake. (Blake 2006: 107)
Camus ci dice che gli uomini devono essere medici.
E gli scrittori, per essere medici, devono essere inviati speciali.

Non dimentichiamo, dopo tutto, che se Edipo può fare quel che ciascuno (dicono) si limita a desiderare, ciò avviene perché un oracolo ha narrato in anticipo che un giorno avrebbe ucciso il padre e sposato la madre: senza oracolo, niente esilio, dunque niente incognito, dunque niente parricidio, dunque niente incesto.
G. Genette, Figure III

C’entra qualcosa con Jeff Mangum e il suo disco fricchettone?
Un po’ penso di sì. Quando in “Oh Comely” scrive: “And I know they buried her body with others / her sister and mother and 500 families / and will she remember me 50 years later / I wished I could save her in some sort of time machine” penso abbia lo stesso medesimo scopo.
E ancora: “Hear her voice as it’s rolling and ringing through me / soft and sweet / how the notes all bend and reach above the trees
La sua voce attraverso la mia, cinquant’anni dopo, il racconto, macchina del tempo, un tentativo di salvare qualcosa dal disastro, la scrittura del disastro.

Sto mettendo a fianco i Neutral Milk Hotel e Camus? No.
Però è affascinante questo voler incorporare il diario di una sopravvivenza al proprio disco.
Che però è il diario di un fallimento. Anna Frank muore nel marzo del 1945 nel campo di Bergen-Balsen, tre settimane prima che il campo fosse liberato. Il loro nascondiglio posto sopra la ditta del padre viene scoperto nell’agosto 1944, dopo due anni di segretezza. Degli otto che questo posto aveva ospitato, solo il padre di Anna, Otto Frank, sopravvisse ai campi e si prese poi cura di dare alle stampe il diario.
Un diario che leggi con la morte nel cuore, scritto da una ragazza in un’età che tutti noi davanti a queste righe abbiamo vissuto, e superato. Un diario che – come ogni libro -, è destinato a finire, ma a finire diversamente.
In the aeroplane over the sea è il canto del cigno dei Neutral Milk Hotel. L’ultimo disco che si poteva comporre, in perfetta sintonia con questa ricerca ineluttabile (letteralmente: che non può essere priva di lutto) di voler cantare una storia senza lieto fine.
Ma la mancanza di un lieto fine non ha mai scoraggiato nessuno.
Tra l’altro non è affatto strano che questa credenza del cigno selvatico che intona una canzone prima di morire sia una bufala totale. Facciamocene una ragione.
«Perché qualcuno si fa avanti? Perché uno scampò al naufragio», dice Melville sul finale di Moby  Dick.
Ho fatto un finale un po’ tagliato con l’accetta, così ve lo rileggete prima di piangere.

Holland, 1945
The only girl I’ve ever loved
Was born with roses in her eyes
But then they buried her alive
One evening 1945
With just her sister at her side
And only weeks before the guns
All came and rained on everyone
Now she’s a little boy in Spain
Playing pianos filled with flames
On empty rings around the sun
All sing to say my dream has come

But now we must pick up every piece
Of the life we used to love
Just to keep ourselves at least enough to carry on

[…]
And here’s where your mother sleeps
And here is the room where your brothers were born
Indentions in the sheets
Where their bodies once moved but don’t move any more
And it’s so sad to see the world agree
That they’d rather see their faces filled with flies
All when I’d want to keep white roses in their eyes

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Bibliografia essenziale

AAVV (2001), Memoria dei campi : fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti : (1933-1999), sotto la direzione di Clément Chéroux, Roma, Contrasto
Arendt H. (1964), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli;
Artaud, A. (2000), Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi;
Bataille, G. (1990), La Letteratura e il Male, Milano, SE;
Bergdolt, K. (1997), La peste nera e la fine del Medioevo, Casale Monferrato, Piemme;
Blake, W. (1991), Poesie, Roma, Newton Compton;
Blake, W. (2006), Visioni, Milano, Mondadori;
Blanchot, M. (1990), La scrittura del disastro, Milano, SE;
Boccaccio, G. (2004), Decameron, Milano, Garzanti;
Borromeo, F. (1987), La peste di Milano, Milano, Rusconi;
Camus, A. (2003), Tutto il teatro, Milano, Bompiani;
Camus, A. (2004), La peste, Milano, Bompiani;
Camus, A. (2005), Il mito di Sisifo, Milano, Bompiani;
Capitani, O. (1995), a cura di, Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della peste nera del 1348, Bologna, Pàtron;
Cordero, F. (1984), La fabbrica della peste, Roma, Laterza;
Defoe, D. (1995), Diario dell’anno della peste in Opere, Milano, Mondadori;
Delumeau, J. (1987), Il peccato e la paura, Bologna, il Mulino;
Diamond, J. (2005), Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi;
Greenblatt, S. (2005), Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico. Come Shakespeare divenne Shakespeare, Torino, Einaudi;
Levi, P. (1996), I racconti, Torino, Einaudi;
Levi, P. (1999), Se questo è un uomo; La tregua, Torino, Einaudi;
Lucrezio (1983), trad. di O. Cescatti, De rerum natura, Milano, Garzanti;
McNeill, W. (1982), La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea,Torino, Einaudi;
Melville, Herman (1998), Moby Dick, Milano, Garzanti;
Paglia, C. (1993), Sexual Personae. Arte e decadenza da Nefertiti e Emily Dickinson, Torino, Einaudi;
Poliakov, L. (1955), Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino, Einaudi;
Politkovskaja, A. (2003), Cecenia. Il disonore russo, Roma, Fandango;
Politkovskaja, A. (2006), La Russia di Putin, Milano, Adelphi;
Sontag, S. (1992), Malattia come metafora. Aids e cancro, Torino, Einadi;
Todorov, T. (1992), Di fronte all’estremo, Milano, Garzanti;
Vetturini, A. (2003), La peste, la pelle, Imola, La mandragora;
Wiesel, E. (2003), La notte, Firenze, La Giuntina.

THE LOAF MAKER – Mark Kozelek/Sun Kil Moon live a Roma

Kozelek

Il biglietto per il concerto di Mark Kozelek l’ho comprato sei mesi fa, da un service di Avellino, o Avezzano, tipo, che serve il Circolo degli Artisti da qualche tempo. L’ho preso la notte stessa in cui avevo ascoltato Benji la prima volta e, preso da questo inconsueto fuoco sacro per il sostanzialmente mai cacato Kozelek[1] – fuoco sacro che mi illudo, come tutti, non avere niente a che fare con la recensione di Pitchfork – ho gridato verso il cielo notturno: COME VORREI SUONASSE A ROMA!, venendo per una volta, una soltanto, esaudito all’istante da Dio, che modificando all’istante la mia ricerca Google, mi deliziava indirizzandomi al service di Avezzano di cui sopra. Ed ecco finalmente un punto, e la fine di un periodo. Che poi, cazzo volete, Thomas Mann li metteva, forse, i punti? Thomas Mann di merda. Tisico del cazzo. Questo Caspar Torp[2], lì, come si chiama il protagonista della Montagna magica? Che poi, la montagna magica per me è sempre stata quella che sovrasta Avezzano, e che accoglie Pescasseroli e la pizzeria San Francisco, la migliore del mondo, che ci crediate o no (la seconda è quella della stazione di Avezzano, non distante dalla quale, tra l’altro, c’è una terza pizzeria che si chiama Nebraska).

Il concerto di Mark Kozelek, dicevo, si è tenuto a Roma la sera del quattro aprile, e non ho alcuna intenzione di recensirlo qui. Il fatto è che le recensioni di concerti non le ho mai capite, perché quale vuoi che sia, il messaggio, alla fine? È stato una ficata, o tu merdaccia che non c’eri, oppure è stato una merda, hai fatto bene a risparmiare i soldi – non che io li abbia spesi, HOT LOAL, perché ero accreditato da un qualche cazzo di media (per la cronaca, di norma Bastonate, oltre al già congruo mensile, ci rimborsa le spese di tutti i concerti compresa una maglietta al banco. Questa volta ho scritto al Direttore, che cazzo, che le magliette di certo non ci sarebbero state, e perciò era un po’ una truffa: per evitare azioni sindacali, mi ha mandato gli otto euro del biglietto in francobolli). Su Mark Kozelek, non saprei cosa dirvi. La cosa che essenzialmente si è perso chi non dovesse essere venuto è uno scazzato totale con una gran voce. Non parlo di me, ma di Kozelek, totale odiatore dei romani  – il che sarebbe anche comprensibile, di norma, ma non nel caso di una audience composta da romani derelitti e innamorati di Kozelek – e facitore non già di loffe[3] (non escludo, ma per fortuna non posso saperlo), ma di tagliente ironia non-divertente, tipo che a Roma c’erano un sacco di graffiti, che ok dillo una volta e il pubblico reagirà con un LOAL (=il pubblico di qualsiasi concerto reagisce con un LOAL a qualsiasi cosa dica il cantante tra una canzone e l’altra), dillo due volte, dillo persino tre se vòi, ma a un certo punto a Markò, amo capito, mo basta.

Il concerto di per sé, che dire, non c’è concerto di per sé in realtà, la ficaggine-stronzaggine dell’artista essendone parte integrante (se non siete d’accordo ascoltatevi il vostro Brahms).  Diciamo che si è trattato del più grande minore del ventennio che eseguiva, voce e chitarra acustica, alcuni dei pezzi più belli sentiti negli ultimi anni, in particolar modo Carissa e I Watched the Film the Song Remains the Same. Perché Benji è un disco straordinario – è qualcuno che ti ha raccontato la verità, e pur facendolo ha mantenuto la grazia di chi si inventa tutto. Che poi c’è questo problema ontologico[4] dell’influenza che i concerti hanno sui dischi: vai a vedere Mark Kozelek convinto che Benji sia l’album dell’anno, torni con lui che ti ha mandato affanculo senza ragione e neanche ti va più di sentirlo. Mia moglie, che è una donna onesta, e ha questa straordinaria capacità di apprezzare o meno gli album senza bisogno di un particolare impianto ideologico, ama Kozelek da anni ma Benji non le piace particolarmente. Io non lo so se questo significa qualcosa, ma l’altra sera lui portava una camicia troppo stretta, e i capelli troppo spessi e crespi, e siamo andati via un po’ prima della fine, con la sensazione che qualcuno ci avesse mentito.



[1] Non del tutto vero. Mi piaceva Kozelek, e una volta, al liceo, imposi un disco dei Red House Painters ai miei amici pariolini in un weekend che passammo nel Cimino. Non ricordo che disco fosse, ma ricordo che suonava nello stereo, un sabato pomeriggio o quello che era, uno stereo abbandonato lì, nella campagna, mentre tutti si facevano i cazzi loro – le canne, le partite di calcio – e io ascoltavo questo Mark Kozelek che riempiva l’aria come in un romanzo o in un blog piagnone, sapendo fin da allora che le sensazioni prevalenti al momento – che quella musica non sarebbe mai più stata così bella, e che le cose piagnone e sdolcinate come questa stessa nota sono a volte profondamente vere – sarebbero state con me tutta la vita, quando sarei andato all’università, quando avrei perso tutti gli amici di quel giorno.

[2] Hans Castorp. Ho controllato dopo. Ma il lapsus mi piaceva, e per onestà intellettuale lo ho lasciato.

[3] Devo spiegarla: mio padre, dieci o quindici anni fa, una mattina si svegliò ridendo dalle lacrime: aveva sognato di essere a Napoli con un importante industriale della zona, e di essersi rifugiato con lui in un portone a causa di una pioggia improvvisa. A questo punto, il tizio gli aveva detto: “È venuta repentinamente, comm no facitore ‘e loffe”.

[4] Almeno credo sia “ontologico”, non faccio filosofia, io sono un catalizzatore di energia (=non ho idea di che cosa io stia citando a memoria ma potrebbe essere Jovanotti).

Il disco più bello di sempre.

niandra

Quando dico “il disco più bello di sempre” non mento mai, però in realtà il disco più bello di sempre è più di uno. Ci sono tre ragioni per cui lo faccio: la prima è che mi permette di dare un’altra sfumatura a “uno dei miei dischi preferiti”. “Uno dei miei dischi preferiti” posso dirlo di centinaia di dischi. The More Things Change è uno dei miei dischi preferiti,  Zen Arcade è il disco più bello di sempre. La seconda è che mi permette di non scegliere tra Zen Arcade e, non so, End Hits o SxM. La terza è che le ragioni devono sempre essere tre. John Frusciante esce dai Red Hot Chili Peppers nel giugno del ’92, in maniera rocambolesca ma non del tutto inaspettata. I Red Hot Chili Peppers sono esplosi da un annetto con Blood Sugar Sex Magik e lui manifesta da tempo totale incapacità di gestire tanto successo di pubblico. Reagisce sabotando i concerti, buttandola in caciara, registrandosi canzoncine in cameretta e facendosi di eroina: l’inizio di una spirale autodistruttiva che se lo mangia mani e piedi, lo fa uscire dal gruppo, lo rinchiude in casa per due annetti e lo risputa fuori sotto forma di zombie.

L’anno successivo all’uscita dalla band John Frusciante lo passa chiuso in casa in uno stato di isolamento e dipendenza sempre più profondi. La lista di amici che gli sono vicino in questo momento include gente tipo Gibby Haynes e Flea, il bassista dei Peppers. Pare sia soprattutto lui a spingere perché Frusciante pubblichi alcune canzoni che ha registrato nei ritagli di tempo durante le session di BSSM e nel tour promozionale seguente: pop psichedelico preso a rasoiate da una chitarra elettrica che spara assoli senza senso, lui che canta e urla con una voce sgraziatissima. Roba registrata per supplire (parrebbe) ad una generale insoddisfazione per la musica a lui contemporanea. Riescono a convincerlo a far uscire il materiale: sono due mini-dischi chiamati Niandra LaDes e Usually Just a T-Shirt. Warner Bros. ha un’opzione legata al contratto dei RHCP, ma una volta ascoltati i nastri decide di lavarsene le mani. L’occasione viene colta dalla American di Rick Rubin, la quale pubblicherà i due dischi insieme con il titolo Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt. Esce l’8 marzo del 1994, con John Frusciante sempre più isolato e stordito dalle droghe, magro come uno scheletro e incapace di promuovere il disco. Viene raggiunto a casa da una troupe che lo intervista per una rete olandese, a creare uno dei freakshow più disturbanti della storia del rock.

Ai tempi di Niandra John Frusciante è ancora all’inizio della spirale discendente. Continua lo stato di sostanziale reclusione, mix a eroina crack e cocaina ed è a un passo dallo stirare le zampine. Tre anni dopo fa uscire il suo secondo disco Smile from the Streets You Hold, raccolta di canzoni disseminate in giro per la sua carriera, poco meno disturbante del disco precedente. Da dichiarazioni successive, il disco è stato messo insieme allo scopo di far soldi per la droga. Prima dell’uscita dell’album, in ogni caso, il chitarrista (aiutato tra gli altri dal solito Flea) inizia a disintossicarsi: viene ricoverato in una clinica, gli vengono estirpati e sostituiti i denti marci e subisce interventi alle braccia per curare infezioni estese. è un periodo di riabilitazione da cui esce rinnovato. Nel 1998 i Red Hot Chili Peppers hanno fatto fuori Dave Navarro (con cui avevano realizzato One Hot Minute) e sono sul punto di sciogliersi: Flea spinge per fare un ultimo tentativo con Frusciante, che accetta con entusiasmo e ricomincia la vita da musicista con uno slancio senza precedenti. Nell’ottica di questa rinascita, e del successo senza precedenti di Californication, nel ’99 ritira dal mercato i due dischi solisti. Continuerà a fare uscire materiale: due anni dopo il famigerato internet album e quello che forse è il suo disco solista più famoso, To Record Only Water for Ten Days; da lì in poi dischi tristi dei Peppers e dischi tristi da solo.

Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Brizzi arriva in libreria tre mesi dopo Niandra. Come per quasi tutti i rockettari italiani di provincia della mia generazione, al netto di tutti gli sfottò che poi gli abbiamo appioppato, è un culto assoluto. La dimensione romanzesca in cui ancor oggi viene sbattuta la musica di John Frusciante dalla critica internazionale non è poi così diversa da quella messa in piedi nel libro: l’amore per la musica che ti fa uscire dal cono di luce, il salto fuori dal cerchio e tutta quella roba lì. Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt invece è la negazione più violenta e feroce di questo canovaccio, prima ancora che ci sia dato modo di metterlo insieme. Niandra è l’espressione di una non-volontà che tende a mangiarsi qualsiasi ipotetica dimensione di eroismo applicata a Frusciante e lo sbatte in un vicolo cieco di irragionevoli seghe mentali, nelle quali entrare è sostanzialmente impossibile. Niandra è l’espressione di un tossicodipendente sociopatico incapace di relazionarsi a se stesso, figurarsi di creare un qualsiasi grado di empatia con il suo pubblico. Metà grassa del minutaggio del disco è composto di esperimenti che altrove non vengono tentati per pura ragionevolezza: urla stridule, chitarre irragionevolmente acide, effetti stupidi, voci rallentate/velocizzate. Metà della roba registrata dentro Niandra (e ancora più in Usually Just a T-Shirt) è messa lì apposta per dare fastidio e far sapere all’ascoltatore di essere entrato in un ambiente insalubre, un ecosistema ostile.

John Frusciante - Vpro 1994 Documentary 035
John Frusciante, 1994

Ho ascoltato molti dischi realizzati da dissociati; perlopiù sono tentativi malriusciti di diventare popstar, alimentati da un culto forse eccessivo ed affascinanti quasi solo nel loro essere in fieri. Sono moltissimi i dischi che valgono (anche tanto) come esplorazioni di una coscienza in disuso più che come opere di musica popolare in senso stretto: buona parte del materiale di Songs in the Key of Z, per dire. Intendo, è più facile che un matto faccia musica come Wesley Willis piuttosto che come Daniel Johnston; è più facile trovare in una sola persona psicosi, incoscienza e buona fede in una persona di quanto lo sia trovare in una sola persona psicosi, incoscienza, buona fede e genio compositivo. Questo in senso stretto non significa che Daniel Johnston sia meglio di Wesley Willis, ma senz’altro servono coraggio o incoscienza (o entrambe le cose) per prendere la melodia di una canzone come (prendo a caso) Running Away Into You, decidere di sabotarne l’altissimo potenziale pop e massacrarla di pitch vocali fino a ridurla come la trovate su Niandra LaDes. Per parte ascoltare Running Away Into You è divertente perché ti sembra di essere in cameretta con Frusciante nel momento in cui decide di buttarla in caciara, ma chiunque l’ha sentita anche distrattamente non può negare che si tratta di roba esattamente all’opposto del so bad it’s good. È una composizione maestosa, infilata in una veste così bizzarra da averle permesso di superare ogni ragionevole data di scadenza.

Niandra, all’uscita, ha venduto qualche decina di migliaia di copie (perlopiù tra completisti ed irriducibili fan dei Peppers). Oggi è difficilissimo porsi a distanza di sicurezza ed analizzarlo come il disco di cantautorato pop-rock che l’autore voleva realizzare: è più facile vederci la fotografia di una stagione nella vita di un uomo che ha toccato il fondo, il momento in cui senza accorgersene si distacca da tutto il resto e cade vittima di se stesso. La maggior parte dei dischi che ho ascoltato e che parlano di questo, in ogni caso, non reggono vent’anni come li regge Niandra. Un disco che di fatto (e non tenendo conto del suo gemello uscito tre anni dopo) non era mai stato inciso e non sarà mai più inciso nella storia della musica, un’opera pop involontariamente stratificata e complessa che ha un aspetto diverso ogni volta che la rimetti sul piatto e che sostanzialmente nessuno (in buona parte per totale disinteresse) è mai riuscito a replicare in seguito.

Non ho ascoltato Niandra il giorno dell’uscita, ma sono comunque passati diversi anni. C’è qualcosa di meraviglioso in un disco che ti permette di invecchiare con lui, una sorta di mutuo privilegio di cui né tu né tantomeno lui siete troppo inclini a parlare. A volte Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt aiuta ad andare avanti, in quel modo un po’ adolescenziale di metterti a contatto con un dolore comunque più intenso e spaventoso di quello che puoi provare. Volendo è pure una storia con un lieto fine, dipende che campana ascoltate (intendo dire, l’autore non ha più realizzato niente di lontanamente paragonabile a Niandra). Fosse morto di overdose nel ’96, Jack Frusciante sarebbe comunque uno dei miei migliori amici. I vostri migliori amici non hanno mai scritto una canzone intitolata La tua fica è incollata a un palazzo in fiamme.

Sabato 8 marzo questo disco meraviglioso compirà vent’anni. Ho intenzione di festeggiare: mi alzerò di buon mattino, girerò per casa rincoglionito come uno zombi, lo metterò in cuffia e lo riascolterò a volumi insensati per la millesima volta. Mi piacerebbe lo facessimo tutti.

STRATEGIA DELLA TENSIONE EVOLUTIVA #3 – Amadeus imita Jovanotti a Tale e Quale Show (con gli ovvi richiami ad Amedeo Minghi)

http://www.youtube.com/watch?v=HWljSLd9jIQ

(pezzo a quattro mani, Franci + Accento Svedese)

Francesco F Senti scusa, mi hai girato un video di Amadeus che canta Ragazzo fortunato di Jovanotti al Tale e Quale show e ora sarò di cattivo umore per tutto il giorno nonostante qui abbia potuto vederlo soltanto senza audio. La prima cosa a cui ho pensato è che diocristo con quella barbina e quei capelli lì Amadeus è davvero la  copia un po’ sciapa di Costantino della Gherardesca, il che tutto sommato implica che uno dei massimi intellettuali italiani della nostra epoca è fisicamente il mashup tra Amadeus e Lorenzo Cherubini con la vergogna che basta a non vestirsi come uno dei due. C’è altro? Dimmi dell’audio, ti prego. Dimmi perchè. Dimmi perchè Gabriele Cirilli che parrucca PSY e Gangnam Style non è -evidentemente- un punto d’arrivo. 
amj

Accento Svedese Pensa se avessi sentito l’audio. Amadeus è stonatissimo ed in sovrappiù per imitare Jovanotti fa la zeppola, con l’unico risultato di somigliare più a Max Tortora che imita Silvio Muccino che imita Amadeus che imita Jovanotti – una cosa psichedelicissima e pericolosa, insomma – che a Jovanotti stesso.
Poi canta Ragazzo fortunato, il cui testo, se applicato alla triste figura di Amadeus, si trasforma all’istante in un delizioso ossimoro. Amadeus, che ormai è talmente alla frutta da ridursi a partecipare a quel fantasmagorico carrello dei bolliti che risponde al nome di Tale e Quale Show (a proposito, ci sono anche Fabrizio Frizzi, Riccardo Fogli e financo Gabriele Cirilli, che l’ultima volta ha imitato Wanda Osiris ma quando dalla regia hanno fatto partire Gangnam Style ha iniziato a ballare come PSY – meglio dei barbiturici con l’alcool, insomma) perchè artisticamente parlando non si è mai più ripreso dal suo jumping the shark, il litigio con Pedro all’Eredità, che istantaneamente ha trasformato Pedro in una celebrità sotterranea ed ha rappresentato l’imbocco del viale del tramonto per il buon Amadeus.
Amadeus, che a Deejay Television quando ero piccolo veniva sfottuto da tutti (Fiorello compreso – ricordo una puntata estiva all’Aquafan in cui Fiorello canzonava Amadeus perché si era ustionato naso e faccia) e che continuo a chiedermi come abbia fatto ad arrivare così in alto, in quell’imitazione ha stonato tantissimo, si è rotolato per terra, ha baciato Loretta Goggi, ha entusiasmato la sua compagna Giovanna Civitillo, ha imbarazzato perfino quel gran maestro di classe & stile che risponde al nome di Claudio Lippi ma ci ha fatto assistere a quella che nel suo complesso è stata una delle scene televisive più tristi ed imbarazzanti di sempre, e questo basta. Quell’imitazione di venerdì sera in prima serata – che più che un’imitazione è un autentico rip-off – sta lì a certificare che Jovanotti è diventato uno dei più grandi intellettuali pop italiani senza nemmeno rendersene conto, anche se spiegare bene il perché è molto difficile.

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E VOTATECI, diocristo. (Bastonate for Macchianera ’13)

Per la prima volta Bastonate concorre ai Blog Awards. In realtà non si chiamano più da un pezzo “Blog awards”, ora sono i Macchianera Italian Awards e a sancirlo informalmente c’è il fatto che Bastonate è (assieme al mai troppo lodato Pop Topoi) l’unico blog che concorre per la categoria musicale.

Essendo che corriamo contro gente tipo MTV, Rolling Stone, Radio Deejay e il Mucchio, dubitiamo ci sia posto per noi che non sia l’ultimo. Essendo non da oggi amanti del combattere battaglie stupide, senza senso e perse in partenza, combatteremo anche questa con un briciolo di accanimento. Anche perché la blogfest quest’anno è a Rimini ed io ho intenzione di presentarmi alla premiazione. Se posso permettermi, aggiungo al pezzo i miei consigli per votare nelle altre categorie su cui ho un’opinione.

Aggiungo anche che, essendo le nomination basate sulla segnalazione delle persone, grazie grazie grazie a chiunque ci ha segnalato come miglior sito musicale. Non so chi siete né quanti siete ma sto passando uno strano momento di giuoia. Qui le votazioni.

Miglior Sito Diecimila Me (diecimila.me)

Miglior Personaggio Azael (twitter.com/azael)

Miglior Rivelazione Vice Italia (vice.com/it), unica categoria in cui è candidato, per me miglior sito senza problemi. Beh, ci scrivo pure io quando capita.

Miglior Articolo  Ma pensarci domenica? (leonardo.blogspot.it/2013/03/ma-pensarci-domenica.html)

Miglior Community ItalianSubs (italiansubs.net)

Miglior sito di News ANSA (ansa.it)

Miglior sito di Satira Lercio.it (lercio.it)

Miglior Battuta  Se continua così, questo papa finirà per far sembrare un pezzo di merda pure Gesù Cristo. (Azael)

Miglior Disegnatore-Vignettista Zerocalcare (zerocalcare.it)

Miglior sito Televisivo sempre ItalianSubs (italiansubs.net)

Miglior sito Cinematografico fortissimamente  I 400 calci (i400calci.com)

Miglior sito Musicale  Bastonate (mi autovoto, anche. Non servirà ma è scaramantico). (bastonate.wordpress.com)

Miglior sito Letterario Barabba (barabba-log.blogspot.it) E DIOCRISTO MANDIAMOCELO IL MANY IN PEDANA DAI.

Miglior sito Fashion Matiseivista? (matiseivista.com)

Miglior sito di Economia  Il Sole 24 ore (sono un classicista) (ilsole24ore.it)

Miglior sito Educational Wikipedia Italia cioè in linea di principio è l’unico che conosco ma lo uso abbestia insomma (it.wikipedia.org)

Miglior sito Politico-d’Opinione  Leonardo (leonardo.blogspot.it)

Miglior Radio-Podcast Radio 24 per via delLa Zanzara (radio24.ilsole24ore.com)

Miglior sito di Viaggi e Turismo TripAdvisor (tripadvisor.it)

Miglior pagina Facebook  Siamo la gente il potere ci temono (facebook.com/SiamoLaGenteIlPotereCiTemono)

Miss Internet Andrea Delogu (twitter.com/andreadelogu)

Mister Internet Azael (twitter.com/azael)

Peggior Flop Parlamentarie del Movimento 5 Stelle (beppegrillo.it/parlamentarie.html) o  Quirinarie del Movimento 5 Stelle (goo.gl/DwljdI), o anche l’Huffington Post Italia, scegliete pure quell che vi pare.

Miglior Fake Casalegglo (twitter.com/casalegglo)