LA PESANTATA DEL VENERDÌ – Musica indipendente italiana e totalitarismo

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È dunque difficile per ogni singolo uomo lavorare per uscire dalla minorità, che è divenuta per lui una seconda natura. Egli è perfino arrivato ad amarla e per il momento è realmente incapace di valersi del suo proprio intelletto, non avendolo mai messo alla prova.
(Kant)

Al mondo esistono due concetti in contrasto tra loro, il totalitarismo e la libertà; la seconda, la odiano tutti, nel senso che ne amano una visione perversa che può essere riassunta così: fare il cazzo che vuoi, sempre, senza assumersi responsabilità né conseguenze, anzi venendo ricompensati (in DANARO, si parla di DANARO) quando questo “cazzo che vuoi” esiste anche in forma pagata, da qualche parte, in qualche modo.

È apparso l’altro giorno su Change.org (non seguo Internet, né altre forme di realtà: ma suppongo si tratti di una piattaforma per petizioni da scagliare contro il nulla, tipo APPELLO A OBAMA CONTRO IL FATTO CHE LA LAZIO HA PERSO, roba velleitaria senza alcuna possibilità di ottenere risultati, ossia un’altra disgustosa forma dell’egolatria che usiamo chiamare WEB) un appello alle principali stazioni radio italiane perché, in mancanza di una legge ad hoc (!), si mettano d’accordo affinché il 20% del loro airplay trasmetta esclusivamente musica italiana emergente.

(l’appello è di tre mesi fa, ok)

Autore dell’appello il sito (magazine? Portale? Quel che è) All Music Italia, che non conoscevo per le stesse ragioni di cui sopra, ma che ha come slogan “Rimettiamo al centro la musica italiana” (“ri”mettiamo? Perché, quando lo è mai stata? Parlano dei tempi in cui Mozart non aveva ancora utilizzato il tedesco?) e sulla homepage, nel momento in cui scrivo, er Piotta che rivendica il fatto di essere sempre stato indie, spia secondo me del fatto che AMI deve essere tra i numerosi (il 45% degli scozzesi, per esempio) sostenitori del distorto argomento “indipendente è  meglio di per sé” (come se non si sapesse che il diavolo ha tutte le canzoni migliori, e il diavolo possiede le BIG FIRMS, tipo la Geffen, la Chiesa e la Apple).

La questione non è semplice né di per sé, né da riassumere, nemmeno per maestri della penna e campioni di libertà come siamo noi di Bastonate (degli Stuart Mill incolti, dei von Hayek impreparati, difensori della democrazia e dei diritti altrui, ad eccezione di indiani d’America e greci non ateniesi), ma mi sembra avere molto a che fare con temi – in ordine sparso – come la sopravvalutazione di sé e di ciò che si fa, la pretesa di ottenere con la forza quello che non si ha e magari neanche si cerca (il successo popolare, che ovviamente se sei i R.U.N.I., gruppo che amo e che considero innocente, e che scelgo di menzionare proprio per questo, suppongo tu abbia messo in conto che non ce la farai, non in quel senso), e la falsa concezione che gli artisti mainstream siano lì a togliere del lavoro a te. In questo senso, persone come Miley Cyrus (o J-Ax o Giusy Ferreri, visto che si parla di musica italiana) sono i veri migranti del pop.

A livello personale, non ritengo che “piccolo sia bello” (FF invece sì, per esempio, e questo dimostra la pluralità di visioni e apertura di Bastonate, il Le Monde dei blog). Sono piuttosto un fan del grande, del grandioso, amo le piramidi, gli alberi come baobab e sequoie, Shakespeare, Kafka e The Newsroom. Quanto alla musica leggera, Lou Reed, Lee Hazlewood e i Suicide, e un botto di roba indipendente se è per questo, ma in generale prediligo gente che ha spinto ciò che faceva fino alle più estreme conseguenze. Sempre a proposito di musica, non ho nulla contro quella emergente di per sé, aggettivo da brividi a parte, ma neanche capisco perché, a parità di valore o di assenza dello stesso, la si dovrebbe preferire a quella già emersa. Soprattutto, non capisco perché l’emersione dovrebbe avvenire secondo un meccanismo di imposizione. Accendi Spotify e – che cazzo! – non si trovano né Townes Van Zandt né Gram Parsons (non ascolto solo vecchie scorregge, eh: è che stamattina mi andava così, e sostengo la mia prosa con un esempio di vita vissuta), ma solo THEGIORNALISTI* o i miei amici Rainbow Island (musica geniale che tuttavia non ritengo le radio commerciali possano ragionevolmente trasmettere, così come non credo che il mio libro preferito di tutti i tempi, le Ricerche filosofiche di Wittgenstein, vada dato come lettura estiva alle medie).

Qual è il retropensiero dietro a progetti come questo? Aiutare i giovani? Sostenere la cultura? Ma i giovani non sono questi, i giovani sono una punk band che suona per sempre nelle oscure cantine di un 1979 eterno; e questa non è “la cultura”, non necessariamente, o lo è solo in senso socio-antropologico o salcazzo-filosofico, roba di cui è piuttosto evidente che nessuno si occupi a livello ufficiale (ok, qualcuno in qualche ufficio delibera contributi pubblici per film di infima qualità: ne sono lieto, ma non è questa la mia battaglia né il punto del pezzo).

Sarò perfido o forse clinicamente depresso, ma io credo che l’unico pensiero dietro a tutto sia riassumibile nelle cose che dicevo sopra: supervalutazione di sé, autoreferenzialità, rifiuto a emanciparsi da sé stessi e tante altre, tutte quelle che formano questo immenso, gigantesco IO che fa impallidire quello di cui scriveva negli anni ’70 Tom Wolfe (ma anche Christopher Lasch, un sociologo credo alquanto noto, che ne La cultura del narcisismo pone il culto dell’io in una inquietante relazione con la mancanza di prospettive).

Chi ha vent’anni, penso, suona per camminare sulla folla, indossare giacche di leopardo  o piegarsi all’indietro fin quasi a toccare terra. Non bisogna perdere questi obiettivi per nessun costo. Se è una cosa giusta, accadrà (lo ha scritto credo Steinbeck). Se non accade – bè, se non accade, ci sono tante cose in una vita umana che può essere bello intraprendere, un lavoro, una famiglia, continuare a suonare e riprovare mille volte – ma, vi prego tutti, lasciamo stare leggi e imposizioni.

 

 

* Sulla scelta del nome di un gruppo rock’n’roll, rimando alle pagine 82-88 del fondamentale Supernatural Strategies for Making a Rock’n’Roll Group, di Ian F. Svenonius, Akashic Books, New York 2012

Gruppi con nomi stupidi: THEGIORNALISTI

Sim Cain, Melvin Gibbs, Chris Haskett, Henry Rollins.

I giorni scorsi è uscito un diss, credo finto, di un gruppo che si chiama TheGiornalisti e che parla male di quaranta altri gruppi indie italiano (indie inteso come gente del giro e italiani nel senso della nazionalità dei musicisti). Cose di un tenore tipo Maria Antonietta ha solo voglia di una cosa e non è sicuramente la musica o la chitarra, per capirci, per dire di uno dei più ispirati. La lista dei 40 diss più divertenti dei TheGiornalisti addosso alla scena indie italiana la trovate a questo link, e questo pezzo per mezzo minuto era supposto essere un diss del loro diss in quanto non divertente. Poi per prima cosa ho deciso che da qui in poi non userò mai più quella parola, e seconda cosa come pezzo sarebbe stato un pelino inconsistente –che poi chi sono io per dire se fai ridere o se non fai ridere. Lo Stato Sociale (je puzza er culo perché nun se lavano, per i TheGiornalisti) mi fa sorridere, le battute sullo Stato Sociale non mi fanno ridere. E poi ho i pregiudizi, ti presenti in foto sbiancata vestito di bianco e non mi fai ridere manco se sei Bill Hicks, che poi c’era un motivo per cui Bill Hicks si vestiva di nero voglio dire.

Tornando in tema, la cosa che più mi prende male della diatriba TheGiornalisti VS tutti è che conosco tutti e quaranta i gruppi di cui parlano i TheGiornalisti ma non ho mai sentito una singola nota pensata-suonata-incisa dai TheGiornalisti. Prima di questo articolo non ero nemmeno a conoscenza del fatto che esistesse un gruppo che si chiama TheGiornalisti, probabilmente il nome più stupido in senso cattivo da dare a un gruppo. Dopo questo articolo mi sono fatto l’idea che i TheGiornalisti non abbiano semplicemente in mano gli strumenti concettuali per suscitare l’interesse e la simpatia di una persona con un briciolo di amor proprio, e quindi a meno di non essere in situazioni di ascolto coatto (tipo farmi un viaggio nella macchina di un amico che vuole farmi sentire ad ogni costo il nuovo disco dei TheGiornalisti, cosa che francamente dubito possa succedere) giuro a me stesso che non ascolterò il disco dei TheGiornalisti manco per sbaglio. MA CHE CAZZO DI NOME STUPIDO, come ti permetti, almeno i Le Tormenta sono un gruppo figo. La recensione dell’ultimo disco su Ondarock, oltre a paventare l’esistenza –appunto- di un disco precedente del gruppo, parla di un album le cui caratteristiche sono appena intuibili dopo tre ascolti, e apprezzabili dopo cinque. Per un secondo penso di averli pregiudicati male, poi penso che i TheGiornalisti sono comunque gli autori di quelle quaranta frasettine del cazzo di cui sopra e che anche se non conosco l’autore della recensione è comunque una recensione su Ondarock e che insomma, preferisco non sporcarmici le mani e rischiare di perdermi qualcosa che potrebbe cambiarmi la vita.

Una parentesi che forse non lo è riguarda invece lo stato generale delle cose nella musica italiana. Uno può interpretare i segni come vuole, ma è indubbio che ci sono stati dei segni decisamente pesanti. I Club Dogo sono andati primi in classifica con un disco terribile (l’ho ascoltato), i The Perris si son fatti conoscere con la strategia innovativa di pagare quelli che gli ascoltavano il disco (non l’ho ascoltato). Moltheni era uscito di scena un paio d’anni fa montando una polemica e torna in questi giorni con un altro disco (pare inciso col suo nome di battesimo e uguale a tutti gli altri dischi di Moltheni, non l’ho ascoltato). Capovilla ha sbroccato una mezza dozzina di volte per com’è stato trattato l’ultimo disco orribile del TdO (l’ho ascoltato) da una critica supponente e infingarda. Ora saltano fuori TheGiornalisti, gli Azealia Banks italiani senza un briciolo del talento di cui già l’Azealia Banks originale è sfornita. Forse non è il posto forse sono io, disse il Poeta, ma nel dubbio io continuo a dare la colpa al posto.

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