STREAMO/TrueBelievers/StareBene/DISCONE e altre cose sul nuovoWolf Eyes

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La prima volta che ho letto il nome Wolf Eyes, come quasi tutti in Italia, è stato su Blow Up. Erano i primi anni duemila e si parlava con un certo entusiasmo di qualche uscita a loro nome, poi collegata a tutto un discorso di nuova musica wave e nuova musica industriale, che tuttora mi ronza nelle orecchie. Ho letto e sedimentato, un momento in cui Blow Up e la musica sembravano nutrirsi a vicenda di questa sorta di energia che li spingeva tutti nella stessa direzione. Ho scoperto abbastanza presto che i Wolf Eyes erano, effettivamente, uno dei gruppi più interessanti del periodo: registrazioni carbonare licenziate sul mercato a botte di venti o trenta l’anno, nei formati più disparati e con in calce nomi di etichette assurdi che negli anni a venire avrebbero ossessionato un intero immaginario. Anche solo metterne in condivisione i dischi su Soulseek ti faceva sentire un punk di prima categoria o una specie di grande diffusore della Cultura, a cui un certo punto persino il mondo esterno prima o poi sarebbe arrivato riconoscendo implicitamente il nostro ruolo di teste di ponte (c’era già arrivato, ovviamente, due minuti prima di noi). Ho scoperto abbastanza presto che essere fan dei Wolf Eyes e del NOISE richiedeva una dedizione ed uno stipendio assolutamente maggiori di quelli di cui disponevo ai tempi. Dischi in vinile colorato stampati su un lato solo e tirati in poche decine di copie; cassette a tiratura ugualmente limitata smerciate più o meno a caso ai banchetti di qualche festival europeo a tema in cui era possibile assistere alle performance; amici che risparmiavano per mesi prima di quell’evento e si portavano a casa edizioni immancabilmente limitate e scrause pagando trecento euro a botta; si fa presto a sentirsi inadeguati, uomini non-nuovi, adepti di seconda o terza categoria destinati a una più che prevedibile abiura del NOISE una volta che quei suoni fossero passati di moda.

L’unico modo di continuare a quei livelli, nel noise, è di diventare artista. Ovviamente a un certo punto lo faccio, un po’ lo facevo anche prima ma ora lo faccio con uno spirito. Lo stupore intrinseco alla scoperta che certa musica può interessare a qualcuno che non sei tu. Registro cose con un mangianastri, aggiungo stronzatine fatte con una strumentazione rimediata e composta (vado a memoria) da tre pedali, un mixer, una tastiera, qualche microfono a contatto piazzato ovunque, un vecchio lettore CD dotato di un tasto per i loop e via; il pezzo forte era un Kaoss Pad 2 comprato a un centinaio di euro ad un amico, utilizzato un paio di volte e ributtato nel cestino. Il valore artistico della musica oscillava quasi sempre tra il ripugnante e l’inascoltabile, e le cassette/gli mp3 sono giustamente rimasti in un cassetto finchè la vita è andata necessariamente avanti e mi ha imposto di buttare le macchinette e ricominciare, boh, a disegnare; la mancanza di dedizione alla CAUSA ci ha imposto di rivedere il nostro asse critico ed abbiamo più che volentieri declassato l’harshnoise a un baraccone di idioti che (a parte pochi nomi, dei quali peraltro manco eravamo così convinti) sfruttava l’hype intorno a Wolf Eyes e simili come un trampolino di lancio per fare cagnara con macchinette autocostruite invece che con le vecchie autoghettizzatesi chitarre, senza alcuna idea alla base della musica stessa a parte il puro casino e a qualche cicatrice autoinflitta nei fortunatamente rari concerti dal vivo. Per poi bollarlo come una sega mentale artsy-fartsy non appena abbiamo visto comparire (tipo ai tempi dell’esplosione di un Prurient) il sospetto che la musica di qualcuno si fosse estesa oltre le bestemmie sputate in faccia a un pubblico di dieci stronzi con un microfono effettato a boia. Le storie di ascesa e caduta, nel rock e derivati, sono tutte riscritture apocrife della rivoluzione francese. Nel periodo di monomania riesco persino a farli piacere a qualche collega di lavoro, con il risultato di ritrovarmi di lì a un anno in discussioni in cui è LUI a raccontarmi per filo e per segno progetti di secondo e terzo grado di gente che ha suonato il corno in una cassetta dei WE uscita nel 2004 su American Tapes dicendomi cose tipo questa te la devi assolutamente sentire ti faccio un disco di mp3 mentre tu pensi quanto tempo da perdere ha ‘sto tizio. E poi? Boh, più niente. Circa un lustro fa smettono di uscire dischi a nome Wolf Eyes e i membri si fanno vivi solo in proprio.

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È abbastanza commovente riascoltarsi oggi i dischi dei Wolf Eyes. L’ho fatto la scorsa settimana: ho iniziato per caso trasferendo dischi da un appartamento all’altro e ripescando dalla pila dei disastri sfilati a qualche distro una delle collaborazioni con i Black Dice. Bello, per niente noioso, per niente gratuito. Ho ricominciato così, un po’ alla volta: Burned Mind che continuo non-originalmente a pensare sia il loro disco definitivo, Human Animal di qualche anno seguente, sempre su Sub Pop, sempre bellissimo. Slicer che forse era uscito su Hanson qualche anno prima, il disco (bellissimo anche questo) con Anthony Braxton. Al momento sono fermo qui. Probabilmente sono partito dai miei preferiti, ma è difficile guardare indietro a quegli anni e trovare un gruppo così amato allora che ancor oggi suona così dentro i tempi. Gran parte del merito è da darsi ovviamente all’eleganza formale dell’estetica del gruppo, oltre ovviamente alla capacità di Nate Young di ottenere un risultato specifico e peculiare a partire da qualsiasi suono. O alla sua capacità di selettore della propria musica capace di buttare sistematicamente nel cestino la roba non interessante o comunque riservarla ad uscite che finisco per non ascoltare. Resta il fatto che il nome Wolf Eyes continua ad essere –parlando di America- la pietra miliare del NOISE così come lo conosco io: al nome Wolf Eyes è associabile quasi tutto quel che so di questa musica, a partire dai padri fondatori per arrivare alle deviazioni freejazz a cui in qualche modo sono giunto ascoltandoli, a una manciata di etichette con nomi tipo Bulb o Hanson o Hospital o American Tapes ma anche Important e Troubleman che li hanno fatti uscire, a duecento side-project dei membri del gruppo, duecento gruppi con cui sono usciti split o dischi in formazione allargata e via di questo passo. Parlando di NOISE, in quella accezione, Wolf Eyes è quasi un genere musicale in sè.

E certo è una notizia che stranisce quella che una nuova formazione del gruppo senza Aaron Dilloway (presente come ospite su una traccia), quattro anni dopo le ultime uscite a nome Wolf Eyes, torna sul mercato con un disco nuovo intitolato No Answer: Lower Floors e viene ospitata su Pitchfork Advance –quindi per certi versi esce con lo stesso hype riservato ai nuovi Strokes* o Yo La Tengo. Siamo ai primi ascolti ma il disco sembra comunque buonissimo: NOISE di sapore molto industrial (in senso buono), per nulla gratuito, costruito su un equilibrio impossibile e su un profilo bassissimo, quasi ad elemosinare nella sua estrema eleganza un posto qualsiasi ai margini dello spettro musicale. Ancora una volta familiare ma al contempo non allineato, ed animato da questo senso di necessità che anche spento il player non accenna ad andarsene: un disco il cui solo essere uscito è una dichiarazione politica che ci colpisce dove fa più male: io ho mollato, i miei conoscenti hanno mollato, il NOISE in molti casi ha mollato. Wolf Eyes è ancora qui in forma smagliante: non sembra potersi permettere di essere altrove.

*mi chiedevo tra l’altro se nel caso di un disco come Comedown Machine sono gli Strokes a pagare per finire su Pitchfork Advance o se è Pitchfork a pagare gli Strokes per l’esclusiva. Quante cazzo di cose che non so.

Ti buco le gomme

Obsolescente qual sono e fui, meno che prodigo di benemerenze per/pro chicchessia, viene da rammentarmi  solo di partenze onorarie dei neuroni che furono. Non c’ho cazzi, insomma. Ho finito davvero di domandarmi chi diavolo me lo faccia fare di sbavare dietro eterne mobili uscite discografiche/cinematografiche/[…]-iche: ché basta le ciance sul tempo che manca – o il più probabile eghezzi pensiero del “siamo noi che manchiamo al tempo” (o al tempio?) – e piuttosto ci si guardi in faccia, nostra o altrui, e si dica finalmente che, sì, cazzo, lasciate che ognuno si gratti l’emorroidi sue. Perché con la scusa dell’espressione, del abbiamo-dentro-tante-cose-universali-da-dirci, ci siam dimenticati anche solo di come parlare di un cazzo (non del) o delle gravidanze in/desiderate. E tuttavia no, giù tutti a sdilinquirsi di parole e ri-trovarsi tra gentechescrivedimusica e parlare, indovina, di musica. E se becchi chi, dottorante o scribente o stante cinema, toh, non si parla d’altro che di quello. A meno che, ovviamente, non sia il momento di dire “tette-froci-italiasuca-domenicacinquepappine” e cose così. Non un progetto coerente, completo, coeso, personale, radicale all’orizzonte; non uno, dico. Ché inevitabilmente anche la cosa migliore e davvero valevole (e ce ne sono, ah se ce ne sono) deve per forza autoriflettersi su di per zine, collettivi, scene, distro, promo, maldicenze e robe del genere. E’ un po’ il problema generale di guardare in faccia gente che, obiettivamente, spacca il culo, sia a risultati che a impegno, e finire poi per chiedersi perché anche questi non escono da una teoria dei sistemi che vede quattro culi e una capanna come limite massimo. Altresì detto, a che pro? La risposta io ho smesso di cercarla tra dischi, film, jpeg, libri, poesie e quel cazzo che volete voi. Mi son detto che effettivamente fermarsi a guardare il panorama ha più senso. Lo si dice sempre, dai, ma poi davvero chi si ferma mai a farlo? Questo nonostante il fatto che vivendo nell’anno domini xx (jamie) ci si debba forzatamente relazionare con l’ambiente para-networkista, con il disco che ancora non è ma già si sa (cfr. Accento Svedese qui), con le musiche che ci sfuggono tra i padiglioni auricolari e manco le ritroviamo più. Il messaggio, da parte di uno che vuole la luna di Gianni Togni, sogna di sodomizzare se stesso, pensa che l’hauntologia sia più cosa di un Mignola o di Bioshock (design spettacolare, gameplay noia), non riesce a finire l’ultimo Baronciani perché gli viene il magone, tenta di evocare Cerebus, è:

BASTA, più che Bastonate. Tabula rasa, Kaput, amabile Seppuku con le viscere in mano per eliminare additivi critici, chimica ricreativa, complessi narcisistici e scappatoie sonore. Che ognuno Non ascolti quel cazzo che gli pare, venendosi addosso. Come si diceva altrove: magari sto esagerando. Magari anche no.

Fino a domani, tra un’ora, un minuto, ora, quando si ricomincia con CM Von Hausswolff, Zona MC, Rival Schools, Parts & Labor..

Ipse Dixit Xidit

Gruppi con nomi stupidi: HAYAINO DAISUKI

Heilige!!!

 
Letteralmente “hayaino daisuki” significa “io amo la velocità” in giapponese. Ma “amare” non basta per rendere in italiano il termine “daisuki“: Daisuki significa ‘amore’ nel modo in cui una ragazzina di sedici anni ‘ama’ Brad Pitt. A fornire la spiegazione è Jon Chang, ex vocalist degli indimenticati Discordance Axis (una delle formazioni capitali se si vuole tentare di comprendere che cosa è diventato il grindcore nel terzo millennio), ora alla guida dei (se possibile ancora più schizzati) Gridlink; dai Gridlink provengono 3/4 degli Hayaino Daisuki (nello specifico, oltre a Chang, il virtuoso chitarrista Takafumi Matsubara già alla guida dei geniali Mortalized, e Teddy Patterson III, occhialuto bassista a quattrocento corde di Human Remains prima e Burnt By The Sun poi), alla batteria c’è una piovra schizofrenica che risponde al nome di Eric Schnee.  Non esistono foto degli Hayaino Daisuki; gli unici scatti ufficiali in circolazione (sul loro ultraminimale myspace e nella copertina del loro primo EP) ritraggono quattro ragazze che imitano varie pose degli Slayer periodo Show No Mercy-Hell Awaits-Reign In Blood. In quattro anni gli Hayaino Daisuki hanno registrato venticinque minuti scarsi di musica: in tutto otto canzoni distribuite in due EP dai titoli wertmülleriani, Headbanger’s Karaoke Club Dangerous Fire (2008) e il recentissimo Invincible Gate Mind of the Infernal Fire Hell, or Did You Mean Hawaii Daisuki?  Entrambi i dischi vengono pubblicati dalla stilosa HydraHead del grafico Aaron Turner in confezioni DVD superlusso con inclusa manicomiale fanzine (con contributi anche di rinomati disegnatori orientali – parte dell’artwork dell’ultimo è opera di Stan Sakai). Detta così sembra un’irredimibile menata per relitti universitari con gli occhiali fanatici del metallo peNsante e/o avanzi da fumetteria obesi che fregano la pensione alla nonna per andarsi a comprare l’ultima action figure di Todd McFarlane, invece, merda, i dischi degli Hayaino Daisuki sono divertenti, che si sia passata una vita ad ascoltare metal o che si ignori bellamente l’argomento, l’effetto è lo stesso: si esce come dopo aver aspirato dell’elio da un palloncino, bevuto sedici caffè, fatto quaranta giri sulle montagne russe e infine diviso un flacone di amfetamine con la mamma di Requiem for a Dream. Assoli al fulmicotone da guitar hero epilettico in una sala giochi di Tokyo, strilli acutissimi (di Chang e diversi guest più o meno influenti) da maiale bastonato a morte, una sezione ritmica che fa più danni di un carico di rulli compressori su un treno merci senza pilota lanciato a 300 kilometri all’ora contro un asilo nido, il tutto condito da deliranti liriche in giapponese stretto e un senso di frenesia da kamikaze preso bene che è assolutamente impossibile da descrivere. Questa è la nuova droga. Un album sarebbe chiedere troppo (o finire direttamente in una cella imbottita nel manicomio più vicino).

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 30 agosto-4 settembre

Suicide? Per me... numero 1!!!

 
Prima di sborrare nei pantaloni al pensiero dei Suicide in data unica italiana a Bologna mercoledì 1 settembre (performing the album Suicide per giunta) è meglio per voi che consideriate un paio di argomenti:
– il concerto si terrà al Locomotiv, il cui il tetto di metallo e le finestre rimaste sigillate per 3 mesi (esattamente dal primo giugno, data in cui si è svolto l’invivibile concerto dei Lali Puna – per la cronaca: niente prevendite, coda interminabile alla biglietteria, dentro il pieno totale e una situazione ambientale indecente con temperature ben oltre i 450 fahrenheit) avranno contribuito a creare un microclima interno che al confronto il deserto del Mojave è una cella frigorifera.
– per “un disguido” le prevendite non sono state attivate neanche stavolta, il che nella migliore delle ipotesi significa come minimo uno scenario all’entrata peggio dell’assalto degli indiani alla diligenza in “Ombre Rosse”, nella peggiore un bagno di sangue in piena regola. Suicide? Homicide.
– il concerto terminerà TASSATIVAMENTE entro la mezzanotte e i volumi saranno con molta probabilità poco meno che risibili, perchè se no i vicini si incazzano e telefonano agli sbirri.
un esempio di show dei Suicide (è vero, quella volta c’era solo Martin Rev: in tal caso moltiplicate per due il numero di vecchi sul palco). Se siete in cerca di un bel karaoke del cazzo su Frankie Teardrop oh Frankie-Frankie abbiate un’idea di cosa invece subirete.
– in tutto questo, il prezzo del biglietto è di 22 euro. È anche vero che la stessa sera a Firenze c’è Leonard Cohen (prevendite già chiuse da secoli), i cui biglietti per i settori più sfigati se non ricordo male partivano da una cinquantina di euro… a ognuno il suo.
Questo giusto per amor di cronaca (senza considerare le manovre da Tetris che si dovranno compiere una volta entrati nel forno-carro bestiame per aggiudicarsi una postazione vagamente decente tentando di dribblare i pezzi di merda con la sigaretta accesa). Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo; io sarò lì intorno alle 21.30.
Il resto della settimana:
Lunedì 30 agosto festeggiamo la fine dell’estate all’Echoes con Riva Starr ai controlli; tanto martedì non c’è un cazzo e si resta a smascellare.
Di mercoledì abbiamo già detto. Giovedì ci sono Arcade Fire e Modest Mouse al Parco Nord per i turisti della musica (e della vita); in fondo, paragonati ai ventidue dei Suicide, i 32 euracci d’ingresso ci sembrano ora quasi equi. Per chi invece ha voglia di perdere un po’ di chili in eccesso via ettolitri di sudore, magari al suono di qualche bella jam viaggiosa che con un trombone grosso come un braccio è la morte sua, al Nuovo Lazzaretto per pochi spiccioli si potranno ascoltare i canadesi Barn Burner, gli statunitensi Unrestrained e i nostrani “nervosetti” Cervo. Inizio ore 21 (ecco altri che se la passano bene col vicinato).
Venerdì 3 per gli assidui frequentatori di modelle piene di cocaina c’è Boosta al Kindergarten; più interessante sabato con la prima esibizione mondiale dei DDR s.p.k.r. per l’inaugurazione di stagione del Decadence (quindici euri). Poi di corsa a sentire Sven Vath al Cocoricò.
Per chi ci crede, domenica al Voodoo Club di Comacchio c’è la Hair Metal Fest in compagnia di due bei relitti mica da ridere: Tuff e Shameless (di nome e di fatto). Nel caso cotonatevi anche i peli del cazzo altrimenti vi lasciano fuori.

DISCONE: Robert Hood – Omega

 

Loro sono organizzati
Tu difenderti dovrai

(Steno)

Se mai esistesse la categoria “disco necessario“, Omega sarebbe l’unico a entrare a farne parte – perlomeno da oggi fino a, boh, probabilmente per sempre. È il 2010 e noi siamo questo. Non c’è altro da dire, non c’è altro da dire. E, se c’è, non credo di avere le parole per dirne. Disco dell’anno. Del decennio. 

With a little bit of luck
We can make it through the night

(MC Neat)