HATEFUCK (il pezzo sul nuovo disco dei Baustelle)

(avvertenza: questo pezzo è lunghetto, e per mascherarlo metteremo qualche grassetto a caso ogni tanto. le parole in grassetto non intendono evidenziare niente. ci sono parole in stampatello, che invece evidenziano qualcosa, anche se non sappiamo cosa. la prima persona plurale va intesa essere in realtà sempre io)
bff

Non è da oggi che ascolto i Baustelle, in realtà li ho coperti con blandissimo interesse per tutto l’arco della loro esistenza. Non sto rivendicando un diritto critico di lungo periodo, voglio dire che se ascoltavi nuovo rock italiano i Baustelle erano sotto i riflettori e Destinati A Grandi Cose già ai tempi di Sussidiario. Da allora a oggi non è cambiato moltissimo nel mio atteggiamento: ascolto i Baustelle per odiare la spocchia supponente di Bianconi e per sperare che i continui riferimenti alla morte di Fantasma inizino a mettere seriamente in giro la voce che i Baustelle portino sfiga, una cosa tra l’altro credo verissima (SCHERZO ovviamente). Fantasma contiene brandelli di testo tipo

Incandescenze ed uragani
Con i piedi e con le mani
Per le strade di Bologna
Un bicchiere di Fernet
In uno sputo di caffè.

A ripeterli fuori dal contesto in cui si trovano fanno piuttosto ridere; dentro al contesto fanno morire di vergogna per il solo fatto di trovarsi lì in quel momento ad ascoltare, generano odio verso chi parla e un bizzarro desiderio di essere idiota a sufficienza da capire di cosa sta parlando il tizio, o che continui a parlare per fomentare lo sfottò un altro pochino. Osservo Dio, lo lascio fare. C’era quella barzelletta del bimbo supponente che gli chiedevano se credesse in Dio e lui rispondeva “diciamo che lo stimo”. Non son bravo a raccontare le barzellette. L’altra metafora è quella della salsiccia che è più buona se la cuoci senza rompere il budello così da farla insaporire nel suo sugo (ve l’ho spiegata quindi non è più una metafora). I Baustelle sono l’onda lunga di uno schizzo di sborra degli anni settanta che ha preso una parabola fortunata ed è arrivato cremoso e intatto fino a noi. Fantasma è il loro miglior disco. Butta nel cestino ogni sensazione di pop elettronico contemporaneo a buon mercato con la quale Bianconi e gli altri flirtavano dal primo disco e inizia a massaggiarsi a tempo pieno il glande con il sogno erotico di una grandeur orchestrale e cinematica che cita i La Crus ma pure Scott Walker e un ovvissimo Morricone e altra roba decente. Che poi era la cosa a cui aspiravano più o meno dal primo giorno, tra le righe, ma senza spingere troppo e trovandosi forse invischiati in un successo più che meritato (meritato nel senso di c’è anche gente che paga per farsi frustare) e costruito sull’affastellare sistematico di riferimenti alla nostra cultura classica (abbastanza bassi da esser compresi da chiunque e abbastanza alti da non esser presi per Jovanotti) su melodie facili e comunque memorabili. I Baustelle, nondimeno, li ascolti ammettendo implicitamente di non essere intelligente ed acculturato quanto chi canta, e dando loro implicitamente l’autorità di poterti dare un consiglio su un argomento qualsiasi –mi chiamo Rachele e mi permetto di consigliarti di uscire da quel cazzo di internet e prendere in mano un libro di Montale. Tra i problemi dei Baustelle, tra l’altro, c’è che non sanno che se Montale fosse stato sufficientemente buono l’avremmo riletto almeno un paio di volte, finito il liceo. Un’altro dei problemi dei Baustelle è che quando dicono che all’ombra dei cipressi (…) trovi Dio/trovi Montale ci s’immagina la rap battle a colpi di diss tra l’uno e l’altro e che solo uno sopravviverà (con l’aggravante che all’ombra dei cipressi si sceglie l’altro). Un altro ancora dei problemi dei Baustelle, ma questo sarebbe un problema dei fan, è che sopra ho scritto un’altro con l’apostrofo e hanno già deciso di derubricare questo dissing alla voce “illetterati di merda”. Ha senso. Il che non toglie il fatto che i Baustelle che parlano riparlano e si parlano addosso sono una realtà che anche il più gretto dei fan, dico loro ma anche della musica in generale (perché Bianconi non è che venga dal nulla, te lo spari se hai dimestichezza con quel genere di powertrip autoriale di sinistra secondo cui la musica è SENZA confini e CON la M maiuscola, il Faber, Piero Ciampi Battiato e Morgan come se piovesse, più occasionali recuperi di Ugo Foscolo, Mauro Repetto e gente simile) riuscirebbe a negare.

Personalmente non riesco a contestualizzare l’idea di qualcuno scriva una canzone il cui testo a un certo punto dice non chattare ma piuttosto stringi forte chi ti ama ed essere considerato un autore di punta della Musica Italiana di Ogni Tempo, uno di quelli che scrivono la roba a cui si guarda per andare avanti o un erede degli autori di prima forza sopracitati, tutti esistiti per convenzione in un periodo tra gli anni sessanta e i settanta in cui tutti erano fighi barbuti con gli occhiali e delle belle canzoni in repertorio, a parte forse Rino Gaetano e altra gente morta. Non riesco a contestualizzare nemmeno l’idea di qualcuno che non abbia problemi a pubblicare una canzone (quella di cui sopra) il cui testo dice “lascia perdere i salotti coi talenti e le baldracche vieni all’ombra dei cipressi” e due settimane dopo figurare come autore di un pezzo portato a Sanremo dalla vincitrice di X-Factor (disconosciuta tra l’altro in un’intervista a una rivista che forse era Grazia e che ho leggicchiato l’altro giorno mentre aspettavo una piadina col crudo e la rucola; a leggerla distrattamente sembra che Bianconi abbia venduto un pezzo a non so chi, forse lo stesso FestivalDiSanremo, e questo non so chi ha rivenduto il pezzo a chi cazzo gli pareva: va benissimo, soprattutto se uno si fa i bagni con i discorsi sull’integrità come me). Non riesco a contestualizzare nemmeno, e questo è il mio più grande problema con i Baustelle, un pubblico di migliaia di persone che da una mezza dozzina di dischi si esalta ad ascoltare un artista che canta parole il cui senso è sia la morte dell’immaginazione che la sua sostanziale superiorità come uomo di cultuira a TE, il cui approccio alla musica pop è una cosa tipo giro nei bassifondi meets un giorno capirete i riferimenti. Voglio dire, se pensano di essere così superiori al lavoro che fanno, perché non cambiano lavoro?

Alla fine della fiera forse è tutto voluto. Fantasma continua a girare nel lettore, sospeso tra hatefuck e desiderio di capire dove Bianconi voglia arrivare (o fino a che punto si permette, parliamo più o meno della stessa cosa nel loro caso). È un disco grandioso, funziona a due e a tre dimensioni e forse persino nella quarta (casuale ed iperposticcia e quasi del tutto riservata a una serie di siparietti orchestrali volti a dare l’impressione di stare ascoltando la colonna sonora di un film); non sembra nemmeno per un minuto il parto della mente di un gruppo che sta cercando di farcela, anzi per la metà del tempo sembra che il gruppo voglia liberarsi dei suoi fan e non si renda conto di come cazzo possano essercene. Per certi versi è un viaggio esaltante, non quanto quello di un Padania (il grande disco italiano del 2012, quello che rilascia tutte le tensioni e si avvia fiero verso il suicidio ideologico del gruppo) ma comunque un’opera di prima potenza. È anche esaltante immaginare come farà il gruppo a portarlo dal vivo e come potranno permettersi centinaia di astanti di cantare in coro cose tipo dammi figli e verità e sesso orale e santità senza sentirsi Vittorio Sgarbi, ma io sono io e mi piace che i miei gruppi preferiti dicano cose raccapriccianti e mi sento comunque molto meglio ad ascoltare –boh- gli Slayer, i Cripple Bastards, certi gruppi hardcore newyorkesi che cantano di venire fermati dai poliziotti ogni sera, certi gruppi hardcore di sotto Roma che inneggiano al Duce o chi per lui, gente che parla di Satana eccetera. Sono pochissime le persone che scrivono testi capaci di infastidirmi e farmi venire voglia di dissociare. Uno è Vasco Rossi, ma forse Bianconi batte persino Vasco. E l’unica cosa che provo è odio, ODIO, cieco e scriteriato odio verso quest’uomo e questa donna e l’altro membro che non saprei identificare e la loro orchestra di quattordicimila elementi probabilmente persino PAGATI che infilano momenti oggettivamente spettacolari di grandiosa musica italiana tipo Nessuno, sospesa tra Morricone e De Andrè (no offense intended), e li affogano in un brodo lirico tra Foscolo, Poe e chiunque altro sia possibile citare in un concept album sui sepolcri (diocristo a un certo punto tirano fuori pure la ginestra). LI ODIO. E odio anche il loro pubblico di stronzi arrivisti e incapaci che chiedono di più alla musica e non hanno abbastanza palle di guardare a roba autenticamente suicida tipo Canaan o Bachi da Pietra o Fausto Rossi o i già citati (entrambe le volte a caso) Cripple Bastards. MI STATE TUTTI SUI COGLIONI, l’Italia peggiore siete voi e il fatto che io continui a farmi del male riascoltando il disco una quantità FOLLE di volte, per nutrire ulteriormente il mio ODIO verso Bianconi e verso voi rottinculo e bagnarlo di argomenti, non prova assolutamente nulla.

il listone del martedì: NOVE COSE SUL CROWDFUNDING

15dollauno

La polemica di questi giorni sul crowdfunding è già arrivata al punto di saturazione e ha già fatto il giro dando un certo grado di street cred anche alle opinioni più stupide che possa avere un essere umano, ed è in questo spirito che ci sentiamo di aggiungere anche noi un po’ di stronzate volanti. Un po’ di riferimenti sulla polemica che potrebbero farvi utile: qui un’intervista al cantante dei Marta Sui Tubi che ha creato il sito Musicraiser, qui il caso concreto di Umberto Maria Giardini che chiede soldi per realizzare un video (una cartolina e il download di un EP se gli allunghi 20 euro), qui la polemica messa in piedi da Federico Guglielmi del Mucchio, qui la versione dello stesso Guglielmi di una noiosissima storia di scazzi lunga ormai anni,  qui un pezzo di Massimo Fiorio (Lava Lava Love, ex Canadians) che alimenta il fuoco delle polemiche. Quelli che seguono sono alcuni punti su cui riflettere, o no, parlando di crowdfunding. Partono dal presupposto che si sappia di cosa si parla quando si parla di crowdfunding e si conosca l’esistenza di Kickstarter, dopodiché è quasi tutto a caso.

LA COLLETTA Qualsiasi cosa si pensi delle collette, non sono una brutta cosa. Un tizio che conosco s’è fatto promettere da alcune persone di comprare il suo libro: se arrivo a venti persone lo stampo, dice. Ci è arrivato, l’ha stampato, ha stampato un altro libro dopo di quello e ha persino pagato quello che gliel’ha illustrato, lo so perché ero io. Una colletta è una colletta. Non c’è niente di immorale nel chiedere aiuto, ma dev’essere fatto secondo logiche minime di cortesia. Se rubano gli strumenti a un gruppo, il gruppo chiede aiuto, tu doni al gruppo dieci euro e il gruppo ti dice grazie, è un gesto che fa crescere entrambi e aiuta molto il buonumore. Nel momento in cui serve definire i termini della donazione come parte di uno scambio, si è perso già un po’ di direzione. Da lì in poi si tratta solo di decidere a che grado di abbrutimento stiamo.

IL TASSO DI SCONTO In queste cose non si pensa mai al consumatore, né in termini di capitalizzazione. Si tende a ragionare in termini assoluti: disco in download 5 euro, disco fisico 10 euro, eccetera. Se ti anticipo 5 euro nel gennaio del 2012 per un disco che mi manderai nel gennaio del 2013, è come se ti avessi dato sui 6-7 euro di guadagno per un prodotto su cui di fatto non stai rischiando soldi (li hai già in casa, sai quanti ne devi spedire, etc). Per quanto riguarda il CD, anticipandoti 10 euro su un prodotto che a stamparlo ne costa diciamo 4 più 2 di spedizione,  ti faccio guadagnare 4 euro più gli interessi sui 10. Questa cosa nell’ambito di un sistema concorrenziale funzionante non ha moltissimo senso: i 10 euro che pago per un CD al tuo banchetto o a una distro sono il costo di un CD che posso prendere e ascoltare 10 minuti dopo. Se per lo stesso prodotto ti mollo i soldi un anno prima vorrei pagare 8 euro invece che 10. ‘sto pulciaro, stai pensando? Sei tu a chiedermi i soldi, non mi sono offerto io di darteli.

IL GENIO Il fatto di essere un artista figo e affermato, e di avere successo con la tua raccolta fondi, non ti rende una persona migliore. Il caso di Amanda Palmer è emblematico: metti insieme un milione di dollari per registrare il disco, qualche settimana dopo chiedi ai tuoi fan di suonare gratis come musicisti aggiunti ai tuoi concerti. Steve Albini ti dà del mentecatto e si becca pure qualche insulto, o peggio lo spaccarsi dell’opinione pubblica tra chi pensa che Amanda Palmer sia una mentecatta e chi pensa che Steve Albini sia un cafone.

LA CONCORRENZA Non è necessario metter su il dibattito per qualsiasi stronzata partorita dalla mente umana: la lista delle cose che Moltheni è disposto a darti in cambio del tuo cash è stata messa insieme da uno che non c’è con la testa. Uno che per 200 euro è disposto a pagarti una cena e accreditarti a un suo concerto può essere tranquillamente definito escort, o comunque una persona che ha problemi con l’euro o la la razza umana -in un caso o nell’altro, comunque, un tizio con cui non dev’essere fichissimo trovarsi da soli a un tavolo. Punto. Il mio amico Francesco, la persona con cui è più piacevole trovarsi insieme a cena in assoluto, insiste per fare a metà col conto. Questa cosa delle 200 euro, tra l’altro, mi mette nella posizione di aprire un progetto su Musicraiser chiamato PAGO IO LE CENE DI MOLTHENI, nel quale vi chiederò 150 euro per una cena per due con Moltheni e ingresso al suo concerto. Pagherò 60 euro di conto in un ristorante fighetto, 15 euro per il concerto di Moltheni, 10 euro a Moltheni per il disturbo, 10 euro di cagnotta a Musicraiser e mi intascherò 65 euro per qualsiasi coglionazzo che accetterà. Se portate a cena me invece di Moltheni la quota scende a cento euro, ci metto su un ristorante ancora più figo, vi pago l’aperitivo e invece di Moltheni ci andiamo a vedere gli Uochi Toki o gruppi simili. Se venite a cena da me e guidate voi al ritorno, il bid scende a 60 euro con lo stesso ristorante ma senza gli Uochi Toki. Magari facciamo metà per uno e mi sbronzo come un capretto, che sono molto più simpatico.

IL POVERACCIO L’idea che tu possa donare indifferentemente 5 euro in cambio di un download in esclusiva o 300 euro in cambio di un pompino da parte della bassista, intendo dire proprio la POSSIBILITÀ che tu possa donare 300 euro, tende a creare due categorie di fan: lo straccione che ti può donare solo 5 euro e tu lo ripaghi con una cosa che non costa e il riccone (o anche fan molto affezionato) che si può permettere di sganciare 300 euro. Il CD e il concerto sono sempre stati occasioni di viversi la musica in maniera democratica: il concerto dei Fugazi costa(va) 5 dollari a prescindere da chi sia tuo babbo, stessa cosa il CD. Con il crowdfunding puoi fare vedere quanto sei più figo degli altri nel tuo essere un fan del gruppo e questa cosa, al di là di tutti i discorsi del pre e del post, rende la musica una cosa peggiore.

LA FACCIA COME IL CULO  Il fatto che sia possibile donare 300 euro in cambio di una cena significa che il gruppo è disposto a prendere 300 euro da una singola persona (e magari offrirgli in cambio una cena), ma per come mi hanno cresciuto a me, un gruppo non dovrebbe permettersi di prendere 300 euro da una persona. Magari la mia visione (vendere la musica facendola pagare quanto vale) è un briciolo ingenua, ma il fatto che io sia un ingenuo non ti dà il permesso. In un ipotetico scenario di analisi di mercato è pure possibile che qualcuno riesca a identificarti come un artista che attira poche migliaia di fan ma tutti col portafoglio carichissimo. Manco gli Wham! avevano mai munto così tanto la vacca.

LA FINANZIARIA Un discorso decente sul crowdfunding non può essere un discorso prettamente qualitativo, e questa cosa squalifica molto la lamentela di Guglielmi. Il crowdfunding (così come l’autoproduzione e l’investimento di una major) aiuta a realizzare sia prodotti di qualità che prodotti scadenti: il fatto che i siti di CF lavorino in un mercato concorrenziale e (a detta del cantante dei Marta sui Tubi) a provvigioni, può effettivamente aumentare il numero di scoppiati che ci provano, ma c’è da immaginare che gli scoppiati si ritroveranno più che giustamente con un pugno di mosche. Il crowdfunding, così come è conformato oggi, è un fenomeno economico che pone problemi economici: il fatto che il crowdfunding funzioni, come sono così solerti a raccontarci i cronisti del Mondo Che Cambia, rende concreta la prospettiva che si vada a sostituire al mercato tradizionale, con il risultato che invece di finanziare qualche progetto qua e là ci troveremo a spendere il nostro budget di dischi dell’anno 2014 per finanziare dischi che ascolteremo nel 2015.

LO SCAVEZZACOLLO Sto pensando a una lista di artisti a cui darei 15 euro senza fare una piega e senza avere la minima idea di come suonerà il lavoro finito: Nomeansno, The Ex, Shellac, Unsane, Melvins, Bob Mould, Zu, Entombed, Brutal Truth, Cathedral, Bloodlet, Phil Elvrum, Deerhunter, Black Mountain, Micah P. Hinson, Dj Gruff, The Evens, Odd Nosdam, Black Dice, Andrew WK, Tom Hazelmyer, Jesus Lizard, Daft Punk, Port Royal, Earth, Will Oldham, J Mascis, Lou Barlow, Henry Rollins, Matt Pike e qualche altro centinaio di persone simili. Magari sono io che ho gusti major, ma nessuno dei nomi che ho in mente avrebbe alcun problema a farsi finanziare il disco da un’etichetta invece che dai fan. Il che ci porta ad un aspetto non ancora frequentatissimo del crowdfunding: non ti dà molte occasioni in più rispetto a quelle che avresti nel mondo pre-CF, ma ne dà molte altre a chi di occasioni già ne aveva a sufficienza.

I SOLDI DEGLI ALTRI Non sono contrario al crowdfunding. Mi fa piacere che qualcuno s’imbarchi in progetti avveniristici ed iper-ambiziosi con cui portare le frontiere del visto ad un altro livello, anche se per quanto mi riguarda se siete musicisti dovreste limitarvi a produrre dischi e suonare concerti. Vi invito comunque a pensare bene a chi state prendendo i soldi in anticipo, a pensare quanto di quello che chiedete è frutto di un ragionamento e quanto è frutto di un capriccio. E cosa siete disposti a dare in cambio. Vi parlo da fan: se voi (o alcuni dei vostri amici) non foste così ingordi e teste di cazzo nel chiederci i soldi, non ci sarebbe nessun dibattito sul crowdfunding: avreste i nostri soldi in anticipo, vi pagheremmo i dischi, ce li godremmo in santa pace e nessuno avrebbe niente da ridire.

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 29 novembre-5 dicembre

immagine di repertorio per far passare il concetto che fa freddo e c'è la neve

Anche se fa freddo e nevica e Bologna-Chievo è stata rinviata per questo e al Cioccoshow non c’erano i cioccolatini a forma di cazzo la città non si arrende: ecco il bellicoso programma della settimana.
Si comincia stasera al Nuovo Lazzaretto con una scarica di metalpunk alla zozza courtesy of i lerci Blunt Force Trauma del mitico Felix Griffin; aprono le danze Minkions e Zio Faster, inizio puntuale alle 22, cinque euracci l’ingresso e se non sei vestito come un vecchio punk londinese e/o un thrasher decerebrato americano degli anni ottanta ti lasciano fuori a gelarti il culo. Martedì a parte Paola e Chiara al Mediaworld di Imola e il pessimo Wavves al Bronson (21.30, quindici euro, pettinatura orrenda e guai a ‘suonare’ più di mezzora) non mi risulta ci sia altro in giro; io non mi voglio male fino a questo punto per cui penso proprio che resterò in casa larvale a fissare le pareti, in modo da tenermi in forma per il concerto dei nostalgici e malinconici Soviet Soviet mercoledì 1 dicembre all’XM24 (dalle 22, gratis).  Per i più temerari in vena di avventurose gite fuori porta, al To Be or… di Civitanova Marche suonano gli sferraglianti Din [A] Tod (dalle 21.30); obbligatorio presentarsi mascherati da gerarca sadomaso. Giovedì 2 serata imperdibile per chi ama la musica: allo Scalo San Donato dalle 21.30 Vakki Plakkula e Banda Roncati, se siete vivi non avete scuse, non si può mancare. Non so il prezzo, ma difficilmente starà sopra i cinque euro.
Venerdì 3 ci sono gli HELMET al Bronson (21.30, quindici euro). Non credo di dover apporre ulteriori commenti, ma nel caso abbiate bisogno di motivazioni supplementari sappiate due cose: 1) Bastonate dj-set prima/durante/dopo il concerto a base di pezzi che non avete mai sentito in un locale e che probabilmente non sentirete mai. Non sognatelo, siateci. 2) After splitting with Winona in 2006, Page Hamilton has dated the bisexual hardcore porn actress Jezebelle Bond. She has talked about quitting the porn business for him on her blog @ myspace.com/jezebellebond13
Per completezza segnalo anche gli altri appuntamenti di venerdì 3 dicembre: Youth Brigade + guests al Nuovo Lazzaretto (dalle 22, cinque euro), Titor + Verme + Hazey Tapes all’Atlantide (dalle 22, pochi euri), Tilbury plays Cardew al Museo della Musica (dalle 21, dieci euro), OfflagaDiscoPax in tour acustico al Locomotiv (dalle 21.30, dieci euro più tessera AICS sette euro), Clinic al Covo (dalle 22, abbastanza euro), e per gli sbarazzini della notte Tying Tiffany dj-set al Decadence (dalle 24, quindici euro) e James Holden al Kindergarten (23.30, ingresso dai quindici euro in su).
Sabato i riformati Swans al Locomotiv (apertura porte alle 21), se venticinque euro più altri sette di tessera AICS che non userete da nessun’altra parte non vi spaventano è l’unica occasione in un tot di tempo per godersi l’abissale Michael Gira (che, a scanso di equivoci, è e resta un gigante); a patto che poi riponiate lamette coltelli corda barbiturici e in generale ogni altro tipo di oggetto contundente e/o nocivo alla salute, per accantonare i propositi suicidi e tornare ad amare la vita c’è Carola Pisaturo al Cassero (dalle 24, dieci euro). Gran finale domenica 5 (se ve la sentite) all’Estragon con gli Skid Row (dalle 21.30). Giusto un paio di deterrenti: i biglietti stanno a ventisei euro e alla voce non c’è Sebastian Bach ma quell’altro.

aggiunte romagnole:
LUNEDI’ 29/11
Un cazzo di niente, sembrerebbe. Serata interlocutoria a guardare Fazio sbronzissimi e/o a disegnare un nuovo episodio della serie a fumetti più bella del mondo che ancora voi non avete visto -mentre io sì. Puppatemi la fava. Un’alternativa possibile è l’esecuzione di Masticazzione con due zete, session per chitarra ed effetti vari ed eventuali in cameretta mia ad opera di me in persona, ingresso 13 euro a inviti. Approfitto della sponda per porre il copyright sempiterno sull’idea concerti a casa propria, molto evidentemente la COSA del 2011.

MARTEDI’ 30/11
Wavves al Bronson, nonostante l’abbiano beccato in Germania con del fumo (questo per dire che il nazionalsocialismo aveva dei vantaggi, insomma). 15 euro più i cerini.

MERCOLEDI’ 01/12
What Contemporary Means (bella domanda) al Diagonal al posto di Julie Doiron, oppure The Jim Jones Revue al Clandestino

GIOVEDI’ 02/12
A Place To Bury Strangers al Bronson. O Texas Terry Bomb al Sidro, chiunque sia/siano.

VENERDI’ 03/12
Helmet al Bronson. Se non capite un cazzo di musica potete anche andare a Club Dogo al Velvet o Tokyo Sex Destruction + Small Jackets al Georg Best (Montereale, colline cesenati).

SABATO 04/12
Un sacco di robe, tra cui ovviamente preferirò di brutto andare a vedere Micah P.Hinson per la novantunesima volta, al Bronson di Ravenna. Concerto dell’anno. In alternativa tali  Rock’n’roll Kamikazes al Sidro, Ennio Morricone a Pesaro da vedere strafatti di porra o Storm[O] e Abaton al Valverde di Forlì. I piatti più sugosi sono un tributo a Jeff Buckley al velvet con tanto di Gary Lucas, che suonerà con tre italiani qualunque. BRRR. Oppure Airway al Vidia di Cesena, probabilmente il peggior gruppo di sempre, Finley meets altre cose simili. Li ho visti a Cesena di spalla ai Get Up Kids.

DOMENICA 05/12
Un cazzo di niente, sembrerebbe. Serata interlocutoria a guardare report sbronzissimi e/o a disegnare grossi piselli sui muri degli stabilimenti all’Anic di Ravenna in segno di sgomento generazionale.

DISCONE: Monte Cazazza – The Cynic (Blast First Petite)

 

Si apre con i sette minuti di Interrogator, livida dark-ambient limacciosa e ostile punteggiata dall’inquietante rombo dei tuoni di un temporale in lontananza, un disco che – a dare retta alle voci – sarebbe dovuto uscire poco dopo il live Power vs. Wisdom del 1996; invece sono trascorsi quasi tre lustri prima di poter ascoltare una nuova produzione di colui che rimane tra i più grandi teorici della controcultura degli ultimi quarant’anni, instancabile esploratore e archivista di più o meno tutto quanto stia ai margini (della società, del vivere civile, del “buon gusto” comune), incontrollabile performer della body art più sfrenata decenni prima che l’intera faccenda diventasse affare per sciccose riviste d’arte e gallerie à la page, nonché comprovato inventore e principale promotore del movimento (oltre che del concetto stesso) di industrial music. Non è mai stato molto prolifico sotto il profilo discografico Monte Cazazza, troppo occupato a scandagliare il marciume dell’umanità fin nelle pieghe più profonde del sapere nascosto, a nutrirsi di quanto generato dalla paranoia, dalla devianza mentale, da ogni tipo di rigurgito antisociale, fedele nei secoli alle parole di Albert Camus: “Mi rivolto, dunque sono“. Ed è una rivolta da tempo silenziosa, nascosta, poco o per nulla appariscente (in dichiarato contrasto con gli eccessi grafici e sguaiati dei primi anni), che cova odio ma non lo grida, più interessata a destabilizzare lentamente ma incessantemente, rosicchiando come ruggine il metallo le fondamenta del sistema. The Cynic è un disco pericoloso. Un disco su cui ogni vero viaggiatore mentale tornerà di frequente. Materia sonora allucinata e allucinante, l’equivalente delle visioni sconvolte e apocalittiche di un Burgess, di un Topor, del Lynch di Eraserhead e di Louis Wain quando stava particolarmente in botta. È lounge per depravati (la spettrale rilettura di A Gringo Like Me, classico minore del Morricone western che nel nuovo trattamento diventa un glaciale numero da sogno lucido di un condannato a morte, a fronte del raggiante e stentoreo grido di speranza che era), spoken poetry per necrofili e tassidermisti (Terminal, agghiacciante murder ballad costruita su un crescendo di atrocità descrittive che proiettano definitivamente nell’orrore puro), techno per psicotici sotto sedativi in un pomeriggio di pioggia (Break Number One, ovvero se le pareti di una stanza delle torture potessero emettere suoni, e l’implacabile progressione di Venom, il pezzo che sentireste risuonare in una dark room deserta nell’ora del lupo), uno sguardo deformante che restituisce una visione del mondo obliqua e maligna, inevitabilmente fuori, profondamente non riconciliata. Con due regali sul finale: What’s So Kind About Mankind, ipnotica filastrocca da mandare in pappa il cervello seduta stante, roba che al confronto i Throbbing Gristle sorridenti e biancovestiti che ripetevano fino alla nausea parole come ‘friendly’ e ‘nice’ diventano un’accolita di pluriomicidi, dieci minuti di deragliamento mentale puro lungo un arrogante stomp da night club dell’Est Europa sopra cui si snoda un tunnel di caramellosi giri di tastiera che sono un clash tra Insomnia dei Faithless però malvagia e gli incubi di un clown drogato, e Birds of Prey, ancora spoken word su un destabilizzante tappeto synthpop freddo e asettico come un pavimento in linoleum, dove si materializzano i fantasmi dei Dark Day di Exterminating Angel e di Leer&Rental di The Bridge. Produce Lustmord, mai così spietato, efficace e sul pezzo dai tempi di The Monstrous Soul. In copertina la carcassa di un animale indefinibile e nel libretto una citazione di Ambrose Bierce. Doveva uscire nel 1996, si diceva, ma tra allora e il 2010, o il 1968 o il 3020, non avrebbe fatto comunque alcuna differenza. DISCONE (per gli alienati).

SHELLAC @ Estragon, Bologna (8/10/2010)

Dell’apporto che Steve Albini ha saputo dare alla musica pesante di ogni tempo non occorre certo che arrivi io a ricordarlo. Così come pure il personaggio-stevealbini abbiamo tutti quanti imparato a conoscerlo a fondo nel corso degli anni: un cinico idealista, individualista fino allo stremo, eccellente quanto controverso oratore anti-tutto (celebri le sue dichiarazioni a 360°, di volta in volta razziste, fasciste, sessiste, antisemite, misogine e chi più ne ha più ne metta: qualunque argomento “scomodo” vi possa venire in mente, lui l’ha trattato – ovviamente dal punto di vista più sgradevole e impopolare al proposito). Fondamentalmente uno di quegli stronzi di cui c’è bisogno, una voce fuori dal coro armata di una dialettica feroce e scontrosa ma anche lucidissima e puntuale che è puro cibo per la mente comunque la si pensi, non importa essere d’accordo con lui o meno. Il problema è che, negli ultimissimi tempi, tanto la sua loquela quanto la gestione della cosa Shellac sembrano perdere terreno: da un lato lui che improvvisamente rompe il silenzio-stampa per rilasciare un’intervista a GQ dove smerda i Sonic Youth per essersi venduti alle major negli anni ottanta, che tirato fuori adesso è il discorso più ridicolo e anacronistico che si possa immaginare (ogni divisione tra major affariste e cattive e indipendenti pure e sante è andata definitivamente a cadere dal momento in cui tutti hanno cominciato a scaricare tutto da Internet, e almeno questo è uno dei pochissimi aspetti positivi ricavati dall’avvento del downloading illegale), dall’altro un gruppo che è stato capace di mantenere inalterato negli anni un profilo artistico, attitudinale e umano di diverse tacche sopra la media mondiale, sia rapportato al resto della musica che alle precedenti incarnazioni di Albini nella forma ora di Big Black ora di Rapeman, che per la prima volta da quando ho memoria suona come la caricatura di sè stesso. E badate bene che queste considerazioni arrivano da uno che, quando è uscito Terraform e tutti ne dicevano peste e corna blaterando cazzate a proposito di “gruppo bollito” e simili facezie, gli Shellac andava a vederli al Link alla facciaccia di quei poveri coglioni; nel 1998 gli Shellac erano l’esempio perfetto di gruppo non allineato, giusto non spiccavano come avrebbero dovuto perchè ce n’erano ancora tanti, di gruppi non allineati, e che cazzo!, c’erano ancora i Fugazi. Lo erano con 1000 Hurts, e hanno continuato a esserlo per tutto lo scorso decennio, attraversato da sporadiche e capillari tournee senza un disco fuori e celebrato, nel 2008, con un nuovo album, Excellent Italian Greyhound (dedicato al cane di Todd Trainer), ancora molto buono e splendidamente uguale a sè stesso nonostante un pezzo, The End of Radio, troppo bolso, autoindulgente e autoreferenziale nonchè decisamente fiaccacoglioni, che rivisto adesso assume nuovi e inquietanti significati.


Oggi probabilmente gli stessi che Terraform è un album minore starebbero nelle prime file a pogare come ragazzini con un sorriso a 32 denti stampato sulla faccia. Ci sono anche io, in mezzo al pogo, attività che avevo smesso di praticare da circa una decina d’anni; mi ci fiondo non appena parte il riff di My Black Ass (secondo pezzo in scaletta) e lì rimango per circa metà concerto, comunque fino a quando mi rendo conto che questa sera non faranno mai Il Porno Star. Ma rispetto alle altre volte c’è una novità: da un certo momento in poi comincio a rompermi i coglioni. Sarà che è venerdì sera e sono stanco, sarà che sono a digiuno da circa sedici ore, sarà che la prima volta che li ho visti non ero ancora maggiorenne e già facevano le stesse identiche gag dalla prima all’ultima, repertorio completo, “sono un aeroplano“, pose stupide a ralenti, Bob Weston che chiede al pubblico di fargli delle domande, eccetera. Niente che non vada in sè, sia chiaro: loro sono una macchina da guerra capace di dare le piste a qualsiasi band di giovinastri snelli e puliti e con il look giusto (quale che sia il significato che vogliate attribuire a quest’ultima affermazione), presi singolarmente sono autentiche eminenze del rispettivo strumento senza fartelo pesare come invece farebbe un Vinnie Colaiuta qualsiasi, Todd Trainer perde i soliti ettolitri di sudore e la chitarra di Albini suona ancora urticante e tagliente e sgradevole come nessun’altra. Eppure da qualche parte dentro di me persiste la sgradevole sensazione di trovarsi di fronte a poco più di un karaoke per introdotti. Che, in fondo, la differenza tra questo e un concerto degli Asia sia soltanto che qui non ci sono tastiere grosse come un tinello. Per il resto lo spirito è lo stesso, ovvero rievocare un periodo lontano nel tempo in cui l’erba era verde e si dormiva con la porta aperta ed eravamo tutti quanti più giovani, sani e felici, e ognuno ha la sua età dell’oro con relativo sottofondo da rievocare, c’è chi la ricollega a John Wetton e chi a Steve Albini e in sè non c’è nulla di male, è la natura delle cose, però che tristezza. Non so come, nello spazio di una sola esibizione (peraltro molto generosa rispetto agli standard del gruppo, oltre un’ora e mezza di concerto) gli Shellac sono passati da avanguardia pura contro tutto e tutti a tristo lunapark da karaoke dell’umano per collezionisti seriali di concertoni, gli stessi che il mese scorso probabilmente erano agli Arcade Fire e che, in un imprecisato futuro, andranno a vedere per l’ennesima volta il Boss. Forse esagero e spero di sbagliarmi, ma a ‘sto giro mi sa che era meglio se lasciavo perdere e mi tenevo i ricordi.

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