La saga sul PAGARE LA MUSICA va continuata e fatta passare per un’altra figura paraistituzionale che è la prima a scriverti, la prima con cui contratti, la prima che ti accoglie, la prima che ti paga quello che c’è da pagare, la prima che finisce come oggetto di un beef-status su facebook se non è andata come ti aspettavi, l’ultima che viene ringraziata prima dell’ultimo pezzo.
Ho chiesto ad uno di quelli bravi che sta facendo cose grasse e bellone a Padova, Davide De Munari, cos’è un promoter e se si rimedia qualcosa.
Nell’immaginario comune, gretto e provinciale che mi piace, il promoter è quello che mentre stai guardando qualcuno suonare da qualche parte ti capita alle spalle ti attacca un pippone che comincia con “E allora? Ti piacciono i gruppochestasuonando?” Non succede sempre, però succede. Cioè, credo sia una delle cose che deve fare, deve sondare a lavoro compiuto. Partendo dall’inizio, invece, chi sei tu, cos’è un promoter, e se serve, perchè serve?
DDM: sono promoter dall’Ottobre 2009, e come dice il nome stesso, promuovo e organizzo concerti assieme ad altre persone che mi aiutano nelle varie fasi di preparazione: preproduzione, promozione, logistica e via dicendo. Per farla breve, un promoter è colui che decide che in quel posto suona quella band a quell’ora, e ne prepara ogni dettaglio. Un promoter penso serva principalmente per unire le band col pubblico, e far trovare ai lavoratori il giusto ambiente di lavoro. Ho cominciato come tanti altri per passione e un po’ anche per gioco, cercando di organizzare una festa di Halloween (in quello che all’epoca era l’Unwound) con 5 amici. La serata era strutturata con dei live ad inizio serata e il dj set electro poi (all’epoca andava così!).
Dopo poco mi son trovato ad essere tentato dal provare a trasformare questa cosa in un lavoro, di investirci molto, anzi, direi tutto: tempo, soldi, passione, provare a farlo diventare la mia vita.
Che bello, hai nominato l’Unwound. Teniamo quella finestra aperta lì per dopo e andiamo avanti.
C’è l’assioma generale secondo cui chi scrive di musica di solito è un musicista fallito, lo si è sempre percepito un po’ così, come del sarcasmo ma non troppo.
Quindi se di solito uno che scrive di musica è un musicista fallito, uno che fa il promoter, secondo quello che dice la strada, è un wannabe Briatore con la maglia dei Bauhaus e la fissa della scena underground?
Il lavoro si svolge su alcune dinamiche alla base dell’imprenditoria: investimenti economici, domanda e offerta. Direi che sul Briatore, chi più chi meno, ci siamo.
Per quanto riguarda l’ambiente underground è la fascia di mercato più attiva in questo momento, girano molte band in questi anni. Allo stesso tempo è anche la più difficile nella quale lavorare, nel senso che i margini sono sempre molto bassi e di molte produzioni che facciamo il rischio di non riuscire a chiudere i conti a fine serata è sempre molto alto.
Chi ci fa veramente i soldi con quella scena lì? Nel senso, hai sottolineato che i margini sono molto molto bassi e credo sia incontestabile. Ma in questi anni di tasche vuote, a chi conviene? Ai locali? Ai promoter? Alle band? Alle agenzie stampa/booking/servizi vari? Alle etichette? Sembra sempre che dietro a tutto questo indotto di gente ci siano somme da beneficenza. E’ davvero così o c’è qualcuno che riesce davvero a pagarci le bollette? E’ una domanda un po’ ingenua, lo so, ma è paradossalmente una delle prime che chiunque sia stato in un qualsiasi locale si è posto almeno una volta. Poi magari si è vergognato, ma intanto ci ha pensato.
Chi li fa veramente, così a grandi linee, non saprei dirtelo con certezza. O meglio, pur se in maniera generalizzata, fa i soldi chi riesce a lavorare con continuità.
Sono in contatto con molte delle figure professionali che lavorano in questo ambiente, dagli uffici stampa ai tecnici specializzati, ma la ferma certezza che ci sia chi naviga nelle piscine piene di soldi non ce l’ho. Anzi, vedo molte persone dotate di una passione fuori dal comune, alle volte votata all’autolesionismo. Voglio dire, di soldi se ne muovono, ma in cassa ne restano sempre molti pochi come ti dicevo. Possiamo fare però una distinzione netta tra chi fornisce servizi e chi investe economicamente in questo ambiente.
C’è chi fornisce servizi, come possono essere le varie agenzie di booking, addetti stampa, tecnici e via dicendo, ai quali a servizio erogato viene corrisposta una retribuzione.
Poi c’è chi investe, in denaro o in ore lavorative, come le etichette discografiche o i promoter, dove non si ha la certezza di quanto e quando torneranno gli investimenti.
Ruota tutto attorno ad un locale però, rischio e possibilità concreta di guadagno, più che sui servizi.
Per quanto riguarda i locali (o forse è meglio dire gestori) c’è chi affitta la sala e si lava le mani di come andrà la serata e c’è chi (sempre più di rado) preferisce prodursi gli eventi, rischiando di tasca propria, per dare un’identità al suo locale e alla sua direzione artistica.
Restando sui locali e riaprendo la finestra sull’Unwound. L’Unwound è stato uno di quei posti che secondo me ha fatto un po’ da apripista, da lì tutta la provincia di Padova, ma anche il Veneto, ha visto che si poteva fare. Cioè che si poteva replicare in qualche modo il modello dell’Emilia Romagna e del Bolognese (ma anche milanese, romano, noi siamo arrivati dopo e in quel momento lì gli altri erano tutti più avanti) nel veicolare un certo tipo di pubblico e un certo tipo di eventi in maniera più continuativa e regolare. Tu che hai visto e vissuto questa cosa più da vicino, com’era e com’è ora questo processo?
Parto con una premessa: a Padova di locali che hanno portato avanti una direzione artistica simile all’Unwound ce ne sono stati nel tempo, posti come il Plan 9 e il Banale, che negli anni lavorarono molto e bene. L’unico problema che col tempo ho notato è che nessuno di questi è durato più di un quinquennio (chi più chi meno) mantenendo alto il livello dei live che portavano.
Vuoi per la poca sostenibilità dei concerti, vuoi per la voglia di far cassa in modo facile (ma non penso sia questo il caso specifico) con delle feste, ma pare quasi che si sia “passato il testimone” di volta in volta. Non c’è mai stata continuità nel lungo termine.
Io ho cominciato a frequentare l’Unwound nel tardo 2008, ricordo di averci visto molti live che mi hanno colpito: Massimo Volume, Giardini di Mirò, Liars, A place to bury Strangers e molti altri. È stato un locale fondamentale per la mia formazione. La sua presenza ci permetteva di non dover andare a Bologna o Milano per poter vedere concerti.
Però ho sempre riconosciuto un suo limite, nel quale riconosco anche uno dei miei, che è quello di aver sempre fatto comunicazione solo sul bacino d’utenza legato alle band che suonavano.
Mi spiego: per mancanza di risorse e/o di tempo, non si riesce mai a portare quella fetta di pubblico disinteressata alla band, ma alla quale potenzialmente quella band può piacere; insomma fare propedeutica all’ascolto (passami il termine, ma non so proprio come spiegarlo meglio).
L’Unwound ha chiuso perché si trovava in una zona dirimpettaia ad un polo residenziale, dove si trovavano altri 5 circoli e una discoteca, le lamentele dei residenti sul disagio che che creavano tutte queste attività notturne ha fatto sì che tutte fossero colpite da un’ordinanza e fatte chiudere.
Logicamente all’amministrazione frega poco che in quel posto ci siano passati i Melvins o i Current 93 e ha fatto di tutta l’erba un fascio
Noi qui si soffre ogni singola volta che c’è da imbastire anche un festivalino di due giorni, nonostante si sia in campagna, si abbia il comune più piccolo e quindi la minore distanza con l’istituzione locale. A Padova, città universitaria e polo culturale, com’è il rapporto col comune, col territorio? Una roba tipo il RADAR FESTIVAL a cui tu stai dietro com’è vista? Vi supportano o pensano sia la solita roba per drogarsi in un angolo buio?
Il rapporto col territorio non è sempre così buono, come dappertutto.Puoi trovarti il vicino che passando in bicicletta ti offende e ti intima di andare a casa tua a far casino, come chi loda iniziative culturali come quelle che facciamo. Diciamo che dopo un po’ cominci a fare il pelo sullo stomaco a riguardo, mentre per quanto riguarda l’amministrazione invece devo dire che il supporto benché sia sempre stato molto contingentato c’è sempre stato, ma le nostre iniziative son sempre nate spontaneamente.
Per l’edizione di Radar Festival di quest’anno abbiamo chiesto uno sforzo importante da parte dell’amministrazione, che fortunatamente non c’ha sbattuto la porta in faccia, ed è già un buon punto di partenza.
Vogliamo far crescere la manifestazione e vogliamo che la città goda delle possibilità che una manifestazione di questo tipo porta in termini di indotto e di profilo culturale.
Poi, nel momento in cui non ci sarà da parte dell’amministrazione la volontà di promuovere il festival, abbiamo tutti delle gambe e con quelle possiamo tranquillamente muoverci verso altri lidi.
Vediamo se riusciamo a farci arrivare banane dagli spalti o taglieggiamenti. Ti devo per forza chiedere un’opinione.
C’è questa scusa per cui in Italia si suona poco perché alla gente piace la merda e i locali non sanno investire bene nella scelta di chi far suonare. Ma vogliamo anche dire che succede spesso che qualcuno con cinque pezzi in streaming su SITODIMUSICAMOLTOLETTO si senta nella posizione di chiedere cachet poco sotto i mille euro?
Su questo discorso potremmo fare un articolo a parte! (scherzo, ma cercherò di non farmi linciare o di essere troppo prolisso)
Parto facendo il punto su alcune situazioni comuni che le band devono affrontare: ossia le spese di trasporto, il numero di tecnici che ogni produzione si porta al seguito e noleggi.
Queste sono spese vive, che quando torni a casa, bene o male sia andato il concerto, devi pagare.
Ora, sia chiaro, non voglio giustificare le richieste folli di certe band, ma penso che il senso della misura sia andato perso molto tempo fa, ma non solo qua in Italia.
L’hype, ahimè, è una brutta bestia: per me devono esserci prima di tutto sostenibilità e riconoscimento nel valore della band, non solo in termini artistici e di coinvolgimento del pubblico.
D’altra parte deve esserci la comprensione da parte dell’agente che tratta la band che alla festa della birra, che ti chiama la band in auge una volta all’anno, di certo non puoi parlare di continuità lungo 365 giorni, quindi di certo non è a loro che devono fare gli “sconti”.
E se ti trovi a lavorare in contesti più sinceri (faccio l’esempio di Zoom Zoom Festival, col quale ho collaborato per 3 anni, dove tutti i ragazzi oltre che essere di casa son tutti volontari, non han mai portato a casa un soldo) trovo giusto incontrarsi ad una cifra ragionevole, prima di tutto per l’onestà dei promoter che offrono il loro tempo e il loro impegno per portare qualcosa di bello in un posto al quale loro tengono.
Sul suonare poco posso dirti che in media una band se suona in ogni locale può fare dalle 40 alle 60 date in un anno. Se ci metti in mezzo anche i festival estivi di ogni tipologia si sfondano pure le 80 date, e ciò significa che hai suonano in ogni dove. La bravura di un agente sta nel riuscire a capire quando ha senso tornare nello stesso posto, e a distanza di quanto, e non attaccare due date a 60km di distanza per contenere le spese di produzione.
Sui locali che non sanno investire torniamo al discorso di prima, ci sono i locali coi promoter esterni, e ci sono i locali che producono eventi in autonomia.
Chiudendo, io sono dell’idea che tutte le band debbano essere trattate con rispetto. Si tratta pur sempre di lavoro, anche se agli occhi esterni tante volte non è percepito così.
Però davanti ad una richiesta troppo alta o si trova un accordo oppure si finisce con un niente di fatto e amici come prima. Di band valide ce ne sono sempre di più.
Dai che ti faccio la domanda classica scontatissima come il “continuare così” nell’intervista postpartita alla squadra che ha vinto, proprio la battuta finale.
“Un gruppo che vorresti far suonare ma non ce la farai mai?” (e poi tipo il prossimo anno lo fai)
Così a bruciapelo?
Sulla nuca proprio
Weezer Old Time Relijun