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Valerio Mattioli
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Ciao Francesco
Vedo che Stefano Isidoro Bianchi che su Blow Up invita i lettori a dare «quattro calci in culo» a Vasco Brondi/Le Luci della Centrale Elettrica ti ha ispirato a risollevare l’annosa (perché ormai è annosa) questione del nuovo cantautorato italiano (NCI). A me ha ricordato Federico Guglielmi che sperava che quelli dell’Officina della Camomilla prendessero «qualche bel ceffone»: che sia un nuovo stadio del giornalismo musicale italiano? Dopotutto il tuo sito si chiama Bastonate.
Ad ogni modo, sull’NCI scrissi poche settimane fa il pezzo che segue; prendeva spunto dalle parole di Birsa sull’ultimo Brunori (dove però non invitava a malmenare nessuno, almeno che mi ricordi) e dal quindicennale dalla morte di De André. Te lo allego, spero che ti piaccia.
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Qualche tempo fa, su Vice è comparso questo duro articolo di Birsa sull’ultimo singolo di Brunori SAS, l’ormai famigerato Kurt Cobain. Gran parte dei suoi ragionamenti ruotavano attorno alle colpe che, a parere dell’autore, la tradizione cantautoriale italiana ha esercitato sulla nostrana musica pop, o canzonetta che dir si voglia. «Sono pochi i cantautori che, storicamente, abbiano dato pari importanza all’espressività solo-musicale delle loro produzioni» ammonisce Birsa, ed è questa un’interpretazione non nuova ma che ciclicamente scatena dibattiti e accalorate prese di posizione.
Appena un paio di giorni dopo, su Minima & Moralia (il blog culturale di Minimum Fax) Christian Raimo ricordava i quindici anni dalla scomparsa di Fabrizio De André con un post perentoriamente intitolato Uno dei più grandi intellettuali italiani. Nel post vengono presentati tre video (un documentario sul rapporto tra De Andrè e pensiero anarchico, un ricordo di Paolo Villaggio e un vecchio speciale sulla poesia di Gianni Minà), anticipati da una breve introduzione in cui il cantautore genovese viene definito «una delle poche voci al tempo stesso libere e autorevoli del dibattito pubblico». Non c’è nulla che approfondisca i motivi dell’impegnativa definizione, perché in fondo non ce n’è bisogno; che De Andrè sia stato «uno dei più grandi intellettuali italiani» è un dato acquisito, una verità che si dimostra da sé: almeno così l’ho capita io.
Mi è venuto spontaneo collegare i due post perché partono da assunti tra loro in apparenza inconciliabili: per Birsa, i cantautori sono tra i principali responsabili del cronico disinteresse del pubblico italiano per l’oggetto-musica, inteso come artefatto sonoro in cui il testo va necessariamente considerato parte di un insieme più ampio. Per Raimo, un cantautore come De André è innanzitutto un poeta, e la sua resta tra le testimonianze che più hanno contribuito alla coscienza civile e morale di un pezzo di Italia. Suonerà strano, ma mi sembrano affermazioni vere entrambe. A seconda del mio stato d’animo, mi ritrovo a parteggiare un po’ per l’una un po’ per l’altra: ci sono momenti in cui, se accendo la radio e danno per caso un pezzo di De André (o di Guccini, o di Vecchioni, o di qualunque altro pluridententore di qualche Targa Tenco) provo un moto di repulsione istantanea e cambio immediatamente stazione; ce ne sono altri in cui, se spulcio tra i dischi lasciatimi in eredità dai miei genitori e mi imbatto in un vecchio Lucio Dalla, mi viene voglia di mettere sul piatto L’auto targata TO, e da lì andare con la nostalgia a un tempo in cui io ancora non ero nato, e quel paese disgraziato che è l’Italia attraversava una delle sue fasi più drammatiche ma anche eroiche, cariche di slanci, di conquiste, di utopie. Ed è un Italia che, piaccia o no, nel mio adorato Battiato di Clic non trovo.
Torniamo per un momento a De André e al primo dei video postati su Minima & Moralia, quello sul «De André anarchico» (se siete tra quelli che De André lo chiamano Faber, vi avverto: alcuni passaggi potrebbero non piacervi). Parto da lì perché per vari motivi è un argomento che mi tocca da vicino, intendo proprio a livello biografico: nelle mie vecchie frequentazioni dei circuiti libertari, ne ho incontrati tantissimi di anziani barbuti col fiasco di vino in mano e una copia di Storia di un impiegato nell’altra, un classico che nelle loro (solitamente esigue) collezioni di dischi occupava un posto di riguardo accanto a qualche vecchio titolo tipo Addio Lugano bella e altri canti anarchici e da osteria. Per quelli della mia generazione, infilare nella stessa frase «De André» e «anarchia» era inconcepibile: consideravamo anzi paradossale ritrovare nello stesso pantheon che ospitava i Crass un tizio che andava in TV da Vincenzo Mollica, che pubblicava dischi per una multinazionale come la BMG, e che di fatto rappresentava una delle voci ufficiali (magari eterodossa, ma comunque riverita e perfettamente inserita nell’establishment culturale) di quello che Raimo chiama «dibattito pubblico». I protagonisti delle sue canzoni – i Michè, i Bombaroli, i Tito – suonavano alle nostre orecchie come idealizzazioni estetizzanti di un anarchismo ottocentesco, romantico, distante anni luce dal grigiopiombo di periferia in cui dopotutto ci eravamo formati. Dico: ce l’avreste visto De André a suonare a Torre Maura, o in uno squat del Laurentino? Quello casomai faceva i concerti in comodi teatri borghesi che per entrarci dovevi pagare quarantamilalire. E però quegli anziani barbuti che ancora leggevano Umanità Nova, che sapevano citarti a memoria Malatesta e Cafiero e che De André si ricordavano «di averlo conosciuto a Carrara nel 1960» conservavano anche qualcosa di profondamente umano, inclusivo, forse un pizzico paternalista ma che funzionava da antidoto all’arroganza e al nichilismo becero di noi giovinastri punk che al fiasco di vino preferivamo una botta di speed. In segreto ci commuovevamo anche, ad ascoltare una Verranno a chiederti del nostro amore. Quantomeno alleggeriva l’atmosfera dopo un pomeriggio passato a ripassare la discografia degli Einsturzende Neubauten, e il fatto che piacesse pure a mamma e papà era un particolare su cui per una volta si preferiva sorvolare.
Al tempo stesso, è difficile non convenire con Birsa quando lamenta la dittatura del testo scritto su quella che è la forma espressiva all’interno della quale i cantautori in fondo ancora si muovevano, e cioè la musica pop. Se restiamo all’esempio De André, bisogna riconoscergli che almeno ogni tanto ci provava: diversi suoi dischi, se non proprio riuscitissimi, sono interessanti anche sul piano musicale, ma non ho problemi a dire che personalmente trovo gran parte dei suoi brani sciatti e mediocri, il che – per uno che fa canzoni – non è esattamente quello che si dice un grande risultato. È qui che la divergenza tra Birsa e Raimo si fa insanabile. La domanda di fondo sarebbe: con quali criteri giudichiamo gente come De André, i suoi colleghi degli anni 60 e 70, e i rispettivi eredi dell’odierno indie italiano? Per Raimo, mi pare di capire, di una figura come quella di De André resta innanzitutto il lascito valoriale, ma anche l’aura iconica del personaggio: «libertario, violento, anarchico, ecologista, laico, perfezionista, narciso, alcolista, misericordioso, sociofobico, umanissimo». Per Birsa, provo di nuovo a interpretare, non si può prescindere dal fatto che i cantautori vecchi e nuovi si muovono all’interno di un ambito culturale ben preciso, e cioè sempre la musica pop, ed è quindi sul piano dei risultati prettamente musicali che va considerata la loro vicenda. Detta in altri termini: come hanno inciso i cantautori sull’estetica di quella che in Italia chiamiamo «musica leggera»? Che contributo hanno portato? In che modo i loro eredi attuali aggiornano quella tradizione? Birsa punta l’indice contro la dittatura del testo sulla musica, ma non penso di sbagliare se puntualizzo il suo pensiero come segue: colpa dei cantautori (se di colpa si trattò) non fu tanto l’abbandono di qualsiasi pretesa musicale a favore di un impegno tutto poetico o genericamente letterario, quanto la resa più o meno incondizionata a un ideale melodico-sonoro conservatore, generico, nel migliore dei casi anonimo; l’ideale insomma che in Italia si era concretizzato nella canzonetta più retriva.
In un punto del suo articolo su Brunori SAS, Birsa azzarda un legame che a molti suonerà blasfemo, quello tra la scuola cantautoriale italiana e il suo storico antagonista disimpegnato, vale a dire Sanremo, suggerendo che in fondo non si tratta di universi tanto distanti. Ha ragione, se non altro su un piano prettamente storico: quando a inizi anni 60 la parola cantautore entrò nei nostri vocabolari, i primi a fregiarsi di tale titolo più che rappresentare una rottura nei confronti dell’ideale canzonettistico sanremese, si limitarono a riformarne i principi. Secondo Enrico Menduni, i cantautori battezzarono «l’ala sinistra della canzonetta», con Sanremo a occupare un’ecumenica posizione di centro, e la canzone classica napoletana a tenere i piedi ben piantati «a destra». È una lettura su cui si più discutere, ma è comunque una lettura tutta interna alla tradizione melodica del Belpaese: in fondo il legame tra cantautori e l’odiatissimo Sanremo risale perlomeno al 1961, quando al festivalone parteciparono i vari Bindi, Paoli, Gaber e Jannacci. Luigi Tenco si suicidò all’edizione del 1967, un gesto che per la storia musicale della Penisola rappresenta tuttora un prima e un dopo. Come sappiamo, a Tenco verrà intitolata non a caso un’altra rassegna, quella dedicata per l’appunto alla «canzone d’autore». A fondarla è Amilcare Rambaldi: lo stesso uomo che vent’anni prima aveva ideato il Sanremo che incoronò vincitrice la Nilla Pizzi di Grazie dei Fior. Solo che a quel punto è il 1972.
Per Sanremo, gli anni 70 sono un periodo di profonda crisi: pochi ascoltatori, partecipanti mediocri, brani svogliati. Persino Domenico Modugno si prende gioco del festival con la memorabile Questa è la facciata B, un brano che lascio in eredità al buon Demented Burrocacao per la rubrica Italian Scoppiati. Per i cantautori invece gli anni 70 furono un periodo d’oro, ed è in questo decennio che vedono la luce quasi tutti i classici del genere. È come se occupassero un posto lasciato vacante, in perfetta continuità con le evoluzioni della società italiana del dopo-68: sono loro, i cantautori dei 70, a prendere in mano l’agonizzante canzonetta e a restituirle quel carattere identitario che fa della canzone melodica all’italiana un fenomeno più antropologico che musicale. Da questo punto di vista la canzone d’autore è stata un vero e proprio manifesto della nazione, ed è anche per il suo carattere intrinsecamente generalista che di rado i suoi protagonisti si sono avventurati in territori musicalmente innovatori. Ripeto: non che qualcuno non ci abbia provato; ma non è che uno si ricorda La locomotiva per l’azzardata genialità della progressione armonica.
Attorno ai cantautori si è costruita negli anni una mitologia che li ha di volta in volta dipinti come elusivi poeti rovinati dalle troppe letture, sofferti bardi del male esistenziale, intellettuali engagé, eroici difensori di una coscienza civile allo sbando. E però, per citare Bennato, alla fine sono solo canzonette. E tali restano, anche quando ai Guccini e ai De André si sostituiscono i Dario Brunori, i Vasco Brondi e i Niccolò Contessa. E per quanto sia tutta roba che di norma non mi piace ascoltare, non sono sicuro che questo sia un limite: al contrario, se – con tutti i suoi guasti – un merito la canzonetta ce l’ha, è proprio quello di raccontare per via emozionale la nazione, e di farlo attraverso un linguaggio trasversale capace se non altro di suscitare… non so, di suscitare qualcosa sia in Vincenzo Mollica che in un punk di Torre Maura. Magari non sempre, però ogni tanto può succedere. Quando Birsa indica nell’indie italiano il legittimo erede della (da lui detestata) tradizione cantautoriale, sottoscrivo in pieno ed è anzi una posizione che sposo da tempo: voglio dire, c’è un filo nemmeno troppo sottile che porta da Piero Ciampi alle Luci della Centrale Elettrica passando per gli Afterhours e l’alternative ruock all’italiana, no? Quella che semmai è cambiata è la cornice di riferimento, e il peso che la canzonetta – anche quella d’autore – ha preso ad assumere da almeno un quindicennio a questa parte nel (per dirla ancor con Raimo) «dibattito pubblico»: e cioè nessuno.
Ora: non è colpa né di Sanremo, né dei cantautori, né di qualche spericolato paladino underground se la musica leggera ha smesso di rappresentare quel macrocontenitore nazionalpopolare che riusciva a parlare a tipi umani tra loro diversissimi; è d’altronde un fenomeno che riguarda l’Occidente intero, e il ruolo che la musica riveste nella definizione di qualsivoglia tipo di identità (generazionale, geografica, politica o che so io) è a questo punto quasi nullo. Quando ho posto il parallelo tra nuovo indie e vecchi cantautori a Emiliano Colasanti della 42 Records, la sua risposta è stata che il paragone era improbo, perché nessuno dei nuovi indie heores può vantare il seguito e il pubblico di un Guccini d’annata: difficile dargli torto. Forse hanno ragione quelli che dicono che i veri cantautori di oggi sono i rapper, ma onestamente l’ho sempre trovata una lettura retorica e pure un pizzico furba, che non tiene conto di una linea evolutiva prettamente italiana che comunque c’è, esiste, ha un suo pubblico meno numeroso che in passato ma tutt’altro che inconsistente. L’ho già detto in passato: indipendentemente dai gusti, quando tra trent’anni vorrò raccontare a un ipotetico adolescente del 2044 com’erano gli anni 10 in Italia, ho come il sospetto che tra i vari materiali ci infilerò anche un pezzo de I Cani, esattamente come adesso mi immagino i 70 quando sul piatto mia madre mette Pablo. Il che non toglie che preferisca ascoltarmi l’ultimo James Holden e che al De Gregori di «tra le pagine chiare e le pagine scure» sostituisco volentieri gli Aktuala. E che i diseredati di De André continui a trovarli consolatori e rassicuranti. E alla fine che sì, in effetti la Kurt Cobain di Brunori SAS è bruttina proprio.