Niggas sul 105 (Death Grips, Niggas on the Moon + Club Dogo, Non siamo più quelli di Mi Fist)

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Il dovere morale di parlar male di questo disco è fortissimo. Esaminate con me tutti i dettagli. Band di avant-rap, termine che potrei aver inventato io al momento ma che è comunque il modo nobile per definire tutta la robaccia che consiste in un cantante hip-hop su una base diversa da quelle tradizionalmente usate nell’hip-hop, una formula utilizzata dagli anni ’90 (chiedo scusa agli storici se ignoro qualche precedente) in vari modi, tutti anche molto diversi tra loro, ma tutti simili a cancelli dorati che sembravano spalancarsi sul cielo del futuro, e si aprivano invece su un brutto vicolo sul retro, tipo quello in cui fece una brutta fine Jaco Pastorius (death to the rickies). Affrontiamolo: quanti buoni dischi hanno messo insieme, in tutto, Rage Against the Machine, Techno Animal, Antipop Consortium, Clouddead, Saul Williams e cazzi? Nessuno, e non c’è ragione di credere che oggi possano far di meglio questi Death Grips, forti di merchandise con brand American Apparel (a me tutte quelle dannate t-shirt, presto), copertine provocatorie – c’è un PENE, non mi va di rivederlo e perciò non lo linko – e di Björk che caga il cazzo su tutti i pezzi di questo album. Che, a proposito, non è un album, ma il disco uno di un doppio che dovrebbe uscire più avanti nel corso dell’anno, e si può ascoltare gratis sul loro sito da mesi, ma io mi sono degnato soltanto pochi giorni fa.

Björk ha questo problema: potrei anche amare la sua musica nell’accezione in cui io possa amare un po’ di anticaja e petrella, techno-house pop in stile primi anni ’90; solo che già dal secondo album rovinò tutto inserendo quel cazzo di pezzo swing che, pur essendo di gran lunga il peggiore della discografia di Björk, Gling Glo demmerda e Dancer in the Dark compresi, è ADORATO dalla gente, che spesso di Björk conosce solo quello, e impazzisce, riempie la pista, CAMMINA SUI CAZZO DI MURI E SUL SOFFITTO quando lo sente iniziare. Björk ebbe anche la sfortuna di avere un suo bel pezzo, Hyperballad, coverizzato da Greg Dulli (cosa che non costituisce più un merito dal primo gennaio 1994, a meno che tu non sia Leonard Cohen e non sia, perciò, migliorabile per definizione), e finì per sporcarsi le mani con tutti i cazzoni d’avanguardia sparati fuori dall’underground mondiale  direttamente sulle pagine di The Wire e Blow Up, costruendo perciò una discografia di spaventosa inutilità, piena di collaborazioni con gente tipo le tribù eschimesi e Chris Corsano (il Vinnie Colaiuta di quelli che frequentano locali tipo il Dal Verme).

Facile presupporre, dunque, che i Death Grips non fossero altro che l’ennesima perdita di tempo della starlette islandese. Invece non è esattamente così, nel senso che il suo intervento non è invasivo e si limita – credo – a dei TÌ TÌ sullo sfondo. “Credo” perché altro non ho sentito: il disco l’ho ascoltato alle 7.30 su un autobus pieno come la merda, di quelli che vanno a Termini e sono pieni di ragazzini che vanno a scuola, tra cui me, impiegati inferociti e venditori cinesi con ENORMI sacchi di merci, tra cui me. Hanno questi sacchi, che poi sono dei giganteschi sacchetti di plastica, davvero molto grandi, come se ci fosse un orso bruno appallottolato a terra, e l’autobus sembra avere dei vuoti tra la gente ammucchiata, e così quelli che aspettano A CENTINAIA alle fermate ritengono di poter salire, e credono, inoltre, noi stronzi già a bordo COLPEVOLI di non farli salire INTENZIONALMENTE, e cominciano a gridare ANNATE N MEZZOOO… ANNATE N MEZZO? N MEZZO CE STA POSTO, SI NUN ANNATE N MEZZO COME FAMO A SALÌ?, ecc., ragione per la quale ogni fermata dura otto minuti, e il viaggio per Termini diventa un incubo tipo Amistad (peggior film di Spielberg di tutti i tempi). In tutto ciò, la gente cerca di salire, la gente cerca di scendere, oltre a quanto detto urla PERMESSOO ma io non me li inculo, ho i Death Grips a palla e neanche li sento, e in sostanza nun me sposto e quel poco di insulti che riesce a superare la musica e ad arrivarmi comunque – sono dei microscopici excerpts di suono, tipo mi arriva un CAZ, uno NZO – la mia mente li attribuisce in automatico alla band, migliorando in modo sostanziale il mio giudizio su di loro.

Settecento parole, insomma, per arrivare a dire che questo disco mi è piaciuto molto. Non lo ascolterò mai più. Ascolterò invece decine di altre volte Non siamo più quelli di Mi fist dei Club Dogo, band-disturbo vero che, a differenza delle sciocche lyrics PROVOCATORIE dei Death Grips (kamikaze, nazi: capirai), ostentano la paresi di Gue Pequeno – un difetto fisico che gli consente di avere un permanente sguardo TU ROSICHI PERCHÉ CIÒ I SOLDI (il concetto di ROSICO attribuito ai detrattori è intimamente connesso con questo genere di artisti, tipo non so, come la rivoluzione con Dylan) – e, quel che è peggio, Arisa nuda, Arisa cioè che in botta di femminilità svelata, è passata nel giro di boh, cinque anni, da un mondo rintracciabile tra confini tipo Elisa Claps e uccisione rituale del maiale (Arisa esprime spesso amore per quel mondo contadino feroce e perverso tipo Stravinskij/Fontamara/Zi Michele) a uno fatto di abbigliamenti segretariali-porci da incubo e una gigantesca scritta DOMINATRIX costantemente gettata addosso a noi poveri lettori di rotocalchi per signore. La debolezza di tutto ciò che siamo – ragazzi brutti con magliette d’assalto – è così svelata dal pop italiano in un modo che è eufemistico definire inquietante. Il tempo passa, il ROSICO (Club Dogo > Zach Hill) avanza, e noi siamo ancora alla fermata del 105. (6 ai Death Grips, ANNATE N MEZZO ai Club Dogo)