Still not loud enough, still not fast enough.

Il nostro sodale/amico/compagno Reje non fu tenerissimo con Evolution Through Revolution. La ragione è che la produzione del disco seguiva il canone ultra hi-fi di quel genere di produzione pro-tools moderna e bombastica che ha massacrato il metal in ogni sua forma (nota a parte: quando è iniziato questo scempio? A me vengono in mente i Killswitch Engage, ma forse mi sbaglio. Scrivetemi un commento o una mail). Probabilmente è vero, o forse no. Dentro Evolution Through Revolution c’è forse uno degli ultimi gridi d’allarme del metal (paradossalmente) classico, il rantolo furioso del vecchio che avanza (old is the new young, come nel retro della mia maglietta dei Nomeansno, che è l’equivalente poi di un Kevin Sharp che sale sul palco a Cervia e chiudendo pollice e indice dice “We’re Brutal Truth and this is grindcore“, facendomi piangere poco prima di travolgermi con il più bel concerto a cui abbia mai assistito). Reje parla di un disco pensato per le nuove generazioni di metallari, ma sotto il palco durante i tour ci sono vecchi bacucchi, nostalgici di un’epoca in cui non servivano pantaloni oversize o frangette per essere osservanti e panzoni alcolizzati ancora in botta per la vita.  La musica dei Brutal Truth in ETR  è riuscita in qualche modo a fondere le tendenze che la governavano dall’interno e dall’esterno e ributtarle fuori con il pragmatismo schifato di cui il gruppo è maestro indiscusso, e si è resa diversa non solo da tutto il resto, ma anche da se stessa. Probabilmente dico cazzate, ma mi ritrovo a riascoltare spessissimo –e sempre con estremo piacere- l’ultimo disco dei quattro newyorkesi e a ritrovarci ogni volta un altro me stesso, e se è vero che ultimamente mi ritrovo nella maniera e nella retroguardia MOLTO più di quanto mi ci potevo ritrovare a diciannove anni, d’altra parte ogni nuovo ascolto di ETR dà conto di quanto i Brutal Truth siano NECESSARI al sostentamento del metal e dell’accacì o di qualunque altra cosa siano diventati oggi.
L’ulteriore e non-necessaria conferma alla cosa viene da una sola traccia smerdata che è possibile ascoltare soltanto nel profilo Facebook della band, al prezzo di un clic sul bottone “mi piace” (almeno credo, io li ho fan-izzati il giorno dopo essere entrato su facebook tipo). I Brutal Truth, chitarrista a parte, sono gli stessi che mettevano le foto dei pescatori che uccidevano le foche a bastonate nel loro primo disco. Musicalmente sono quelli che sono diventati dal ’94 in poi, solo un po’ più metal. Il pezzo si chiama End Time e sarà inclusa nel disco che uscirà a fine settembre: stesso titolo, stessa etichetta, stessa formazione dell’ultimo lavoro. La tracklist (23 pezzi, uno in più di Sounds of the Animal Kingdom) è qua sotto, e solo a leggere i titoli vien voglia tipo di scendere in piazza a menare i fasci a mani nude.

  1. Malice
  2. Simple Math
  3. End Time
  4. Fuck Cancer
  5. Celebratory Gunfire
  6. Small Talk
  7. .58 Caliber
  8. Swift And Violent (Swift Version)
  9. Crawling Man Blues
  10. Lottery
  11. Warm Embrace Of Poverty
  12. Old World Order
  13. Butcher
  14. Killing Planet Earth
  15. Gut-Check
  16. All Work And No Play
  17. Addicted
  18. Sweet Dreams
  19. Echo Friendly Discharge
  20. Twenty Bag
  21. Trash
  22. Drink Up
  23. Control Room

DISCONE: Cave In – White Silence (HydraHead)

Il momento più terribile della storia dei Cave In è l’uscita di Antenna. Nelle intenzioni sarebbe l’album della svolta: viene registrato con i soldi di RCA, la label ha deciso di puntarci, fa pressione sul gruppo e riesce ad ottenere un disco più pop di Jupiter. Antenna non è quel che si dice un brutto disco, ma non ha un pubblico ideale a cui aggrapparsi: Jupiter se n’era creato uno per quanto era bello, ma una cosa è spacciare Radiohead e Pink Floyd agli orfani dell’emo e una cosa è una major che ti vende come se fossi i QOTSA: il gruppo lo scopre a sue spese durante il tour, incontrando una risposta inesistente che li convince a cospargersi il capo di cenere, riprovare ad essere -almeno- un gruppo di punta del giro Boston-accacì, rivisitare il proprio suono aggiungendo dosi quantomeno generose di metalcore simile a quello degli esordi ma MOLTO più finto e piacione, fatto apposta per accaparrarsi gli spicci di un pubblico potenziale fatto di metallari in transito con frangetta, occhi bistrati, maglietta nera e polsini di cuoio. Quando RCA ascolta i provini per il disco successivo, intitolato Perfect Pitch Black, si mette a ridere. Scarica il gruppo senza battere ciglio e permette la pubblicazione di PPB sotto il marchio Hydrahead nel 2005, a suggello di uno dei momenti più tristi e sfigati della storia dell’accacì, dell’etichetta di Aaron Turner e sicuramente del gruppo di Stephen Brodsky. La band si scioglie un annetto dopo. Il bassista mette insieme un progetto a due con un altro ex-OldManGloom, lo chiama Zozobra e incide pure qualcosa, con un buon riscontro di pubblico e critica. Per i concerti gira con i due chitarristi dei Cave In. I quali annunciano di essersi riformati nel 2009, un po’ a sorpresa, con un EP intitolato Planets of Old che segue l’onda di PPB, e queste dieci righe non sono il mio provino per Virgin Radio bensì un modo come un altro per dire che del fatto che i quattro bostoniani siano tornati con il primo disco lungo da sei anni a questa parte, in linea di principio, non mi frega quasi niente.

E invece salta fuori che i Cave In hanno ancora un paio di cartucce. Oggi esce il nuovo disco, il primo lungo da sei anni a questa parte, dal titolo White Silence. L’etichetta è sempre HydraHead. Dentro al disco c’è tutt’altro che silenzio bianco: voci compresse, urla sguaiate, produzione incasinatissima. La musica inizia come una cosa ispirata fatta da uno di quei gruppi black metal di redneck americani da cameretta che vanno di moda adesso, poi succede più o meno qualunque cosa: echi di Jupiter che spuntano fuori da pezzi degli Old Man Gloom e agitano le braccia per non affogare (nel 2004 li avrebbero chiamati sbuffi in superficie), sfoghi pinkfloydiani talmente gratuiti che al confronto i Comets On Fire più spinellati eran roba da chierichetti, un paio di botte hardcore, trame di un minuto, parti melodiche, feedback di chitarra e cose simili. In certi momenti sembra di sentire Adam McGrath che si rompe le unghie contro le corde della chitarra. In tutto questo non è davvero possibile segnare che White Silence sia quel che si dice un disco coi pezzi: sembra più che altro un blob informe scritto come per mettere insieme il bignami di tutte le cose che i quattro membri della band hanno mai suonato nei dodicimila gruppi a cui hanno preso parte, concedendo ad ognuna non più di due minuti, cucendo tutto assieme alla Frankenstein maniera e suonandolo con una violenza che pure Dave Curran si dovrebbe togliere il cappello. Non sarà Jupiter, ma se conti che vien fuori da un gruppo morto e sepolto c’è da piangere di gioia.