PITCHFORKIANA: Agathocles, Matias Aguayo, Mulatu Astatke, Master Musicians of Bukkake, Mouth of the Architect

AGATHOCLES – Peel Sessions 1997 (Selfmadegod)
Uscita numero 15.357.651 quest’anno per gli Agathocles, probabilmente la più sensata: per i necrofili una buona occasione per riascoltare (sebbene per pochi secondi) la voce del povero John Peel; per i reduci crust coi dread fino al buco del culo, cane-belva al seguito e stracci con le toppe degli Assück addosso la chance che aspettavano per sentire superclassici come Kill Your Fucking Idols, Thy Kingdom Won’t Come, Theatric Symbolisation of Life o l’eterna Christianity Means Tyranny (giustamente posta in chiusura) risuonati per l’ennesima volta. Loro sono leggenda. (6.7)

MATIAS AGUAYO – Ay Ay Ay (Kompakt)
Inaffrontabile ciarpame acappella che si fatica a crederci, in ogni caso roba che un Ricoloop si mangia a colazione ruttando qualsiasi giorno della settimana; veramente imbarazzante la deriva dell’ex Genio Frocio dei Closer Musik. Il titolo del disco è la recensione. (1.3)

MULATU ASTATKE – Mulatu Steps Ahead (Strut)
Nella categoria ‘negri con lo xilofono in mano’ lui è semplicemente il migliore sulla piazza; questo non solleverà un decimo dell’hype del disco con gli Heliocentrics ma spacca uguale. E la Mulatumania continua… (8.0)

MASTER MUSICIANS OF BUKKAKE – Totem Two (Important Records)
Molto meno lisergico, impossessato e brucianeuroni dell’inarrivabile primo album, il che per certi versi è una botta anche difficile da assorbire; ma la qualità per ora tiene, e la conclusiva Patmos regala deragliamenti psichici ancora più preziosi ora che i Sun City Girls non sono più tra noi. (6.8)

MOUTH OF THE ARCHITECT – The Violence Beneath (Translation Loss)
Sludge post metal coi coglioni duri. Ogni tanto qualche tastieraccia che non ci sta a dire un cazzo, svisate in aria di wannabe-clone dei Tool di Lateralus, ma sono dettagli: sembra di essere tornati nel 1999. (7.0)

True believers: Junior Kimbrough

Junior Kimbrough ha inciso il suo primo long-playing a sessantadue anni. Junior Kimbrough era uno di quei figli di puttana conclamati che se li incontri per strada cambi marciapiede, tanto sgradevole, imprevedibile e pericoloso nella quotidianità quanto geniale e rivoluzionario con la chitarra in mano (il suo blues sinistro e ipnotico, ottenuto picchiettando con il pollice le corde delle note più basse, in una specie di drone regolare e continuo, resta tra i lasciti più inimitabili e fieramente incompromissori dell’intera storia del genere). Secondogenito di una famiglia di contadini di Hudsonville, Kimbrough scopre la musica a sei anni, più o meno nello stesso periodo in cui rischia per la prima volta il coma etilico; non molto tempo più tardi si rende conto che la placida monotonia di un posto sicuro alla John Deere non è lo stile di vita per cui è tagliato. Inizia a frequentare i juke joints, e ben presto diventa uno dei più temibili biscazzieri dal grilletto facile di tutto il Mississippi. Da lì in poi, come sempre accade, i confini tra storia e leggenda si fanno sempre più labili e sfumati, le carte si mischiano, fino a quando l’una e l’altra si compenetrano tanto inscindibilmente da diventare impossibili da distinguere; di certo si sa che Kimbrough ha pubblicato un singolo (la cover di Tramp di Lowell Fulson) nel 1967, uno nel 1982 e praticamente nient’altro fino al 1992, anno della consacrazione definitiva grazie soprattutto all’interessamento del critico e autore Robert Palmer (niente a che vedere con l’autore di Johnny & Mary). Nel mezzo, una serie infinita di furti, truffe, risse e tentativi di stupro e omicidio, una collezione di misfatti incredibile per vastità e varietà, molti dei quali oggetto dei suoi stessi pezzi (un esempio? You better run, tra i suoi brani più famosi, è indirizzato a una donna che Kimbrough sta per violentare). Fino alla fine dei suoi giorni (morì nel 1998, a sessantasette anni, per un attacco di cuore causato dalle conseguenze di un ictus), metteva paura solo a guardarlo; la fama che lo precedeva era agghiacciante, e bastava incrociare il suo sguardo o sentirlo parlare per un istante per capire che le dicerie che circolavano sul suo conto erano tutte vere, fino all’ultima. Incontrollabile nella lotta a coltello come tra le lenzuola, lascia al mondo una trentina tra figli riconosciuti e illegittimi.
Ho ascoltato per la prima volta Done got old nella versione contenuta in Do The Rump!, raccolta di sessions risalenti al 1988 pubblicata nel 1997 sotto la ragione sociale Junior Kimbrough & the Soul Blues Boys; fin dal primo impatto non ho avuto dubbi di trovarmi di fronte a una delle più grandi canzoni sulla vecchiaia mai scritte, forse la migliore. Non è solo per il giro di chitarra o le cose che dice e come le dice, probabilmente è per tutto questo messo insieme, sta di fatto che non ho mai sentito qualcosa di altrettanto schietto, lucido e spietatamente brutale, capace di catturare perfettamente l’essenza di un concetto nel preciso momento della sua acquisizione. È come se Kimbrough si fosse reso conto, improvvisamente e tutto in una volta, della sua condizione, ne fosse stato investito e non potesse fare altro che prenderne atto: Beh, sono invecchiato/ Non posso più fare le cose che ero abituato a fare/ Sono vecchio. Come per tutte le rivelazioni, il contenuto è semplice, estremamente semplice. E inconfutabile. Voglio dire, esiste qualcosa di più vero e pregnante che si possa dire a proposito della vecchiaia? Se c’è io ancora non l’ho trovato.

Done got old

Well, I done got old
I can’t do the things I used to
I’m an old man.

Well, I done got old
Well, I done got old
I can’t do the things I used to do
‘Cause I’m an old man.

Remember the day, baby
That done passed and gone
When I could love you
Most any time

But now things gone changed
And I done got old
I can’t do the things I used to do
I’m an old man.

I don’t look like I used to.
Can’t even walk like I used to.
Can’t even love like I used to.

And now things gone changed
And I done got old
I can’t do the things I used to do
Because I’m an old man.

Living Colour @ Estragon, Bologna (20/11/2009)

(l’immagine l’ho presa da qui cercando con google immagini ma non riesco ad aprire il sito, mi si impalla il computer prima)

 

 

Due ore e quaranta. Centosessanta cazzo di minuti dritti dritti uno dietro l’altro senza nessuna interruzione a parte quella, brevissima, tra la fine del set vero e proprio e gli immancabili bis. Una prova atletica sfiancante, da pornodivo. E come i migliori e più affidabili pornodivi, anche i Living Colour devono essere in possesso di una serie di requisiti indispensabili, considerata anche l’età media dei componenti e il genere musicale proposto, non esattamente roba alla Sufjan Stevens: salute inattaccabile, robustezza e vigore assoluti, concentrazione totale e capacità di resistenza virtualmente infinita, oltre ovviamente – e qui citiamo alla lettera Steve Albini – a una volontà di ferro. Impossibile anche solo pensare di non avere voglia di salire sul palco quando si suona il funk metal più muscolare del mondo (gli unici antagonisti possibili sono stati gli Infectious Grooves, almeno fino al 1995), e ognuno di loro è un’autorità incontestabile nel proprio strumento: verrebbe a mancare la ragione stessa dell’esistenza del gruppo ora, dal momento che i dischi post-reunion (Collideoscope del 2003 e il recentissimo The Chair in the Doorway) sono ben poca cosa se confrontati al sovrumano repertorio passato – compresi pure gli esordi solisti di Vernon Reid (Mistaken Identity, 1996) e Corey Glover (Hymns, 1998), entrambi autentici classici misconosciuti. E ‘misconosciuto’ (o ancora meglio un suo sinonimo: ‘sottovalutato’) sembra essere una parola tristemente famigliare nelle sorti della band: graziati da un immediato (e onestamente strameritato) successo ai tempi del debutto, tempo un altro album e un EP, poi arrivano gli anni novanta e bum: Nevermind. Chiunque non vesta come uno straccivendolo e non scriva canzoni su quanto siamo stupidi a immettere ed emettere fiato dai nostri polmoni è considerato un povero stronzo, figurarsi cosa possa interessare al mondo di quattro negri che suonano canzoni tecnicamente intricate. Loro provano ad adeguarsi come possono e ne esce il monumentale Stain (1993), disco cupissimo (per i loro standard) e stimolante come e in certi casi perfino più dei precedenti, corredato da una copertina sufficientemente tetra e da un video (per il primo singolo, Leave It Alone) tutto luci/ombre capelli sulla faccia vestiti cenciosi che a rivederlo oggi urla anni novanta da ogni singolo fotogramma. Non funziona: il tormentato e grungettoso pubblico li ignora, loro si sciolgono. Se cercate su Youtube un video qualsiasi dei Living Colour e vi soffermate a leggere i commenti (non tutti, bastano i primi cinque/sei) noterete che la parola più ricorrente è ‘underrated’. Per fortuna che, negli anni di silenzio, il culto non ha mai smesso di essere tramandato, e oggi esiste una solida e nutrita fan-base del tutto trasversale (anche se, ohimè, non più giovanissima) che li segue e li venera; questa sera l’Estragon è pieno per metà e anche un poco oltre, che per un gruppo come loro è un risultato importantissimo. Certo il tempo passa per tutti, e quando salgono sul palco a momenti non ne riconosci neanche uno: Vernon Reid ha rasato a zero i suoi lunghi rasta e ora sembra un clone negro di Tom Morello, compresi il cappellino, le pose plastiche e il modello della chitarra; Corey Glover è due volte il vecchio Corey Glover e sembra il cantante degli Urban Dance Squad intrappolato in una mise da meccanico (salopette di jeans e camicia azzurra a mezze maniche, oltre agli immancabili occhiali da saldatore) che non dismetterà mai. Al basso c’è Doug Wimbish, presenza fissa da Stain in poi nonché turnista di extralusso per chiunque lo paghi, da Billy Idol a Tarja Turunen a Mos Def fino ai Rolling Stones, in passato stretto collaboratore di Mark Stewart (che è quel che più ci interessa). L’unico rimasto esattamente come era è Will Calhoun, anche se la sua batteria è talmente monumentale che dietro potrebbe starci chiunque, anche il povero André The Giant, e non scorgeresti comunque nulla a parte, ogni tanto, il mulinare di due braccia. Iniziano puntualissimi, precisi e ferali come cyborg; non una sbavatura, tutto è spaventosamente perfetto e anche emozionante: un sogno, corroborato da visuals allucinogeni da festa goa-trance proiettati ininterrottamente su un telone bianco alle loro spalle. Non risparmiano e non si risparmiano smargiassate da übersegaioli dello strumento, dall’assolo di basso stratosferico culminato in una suonata coi denti da far sbarellare Jimi Hendrix se solo fosse ancora vivo, a sei minuti di sola batteria con palco buio e bacchette luminose; fa parte dello spettacolo e stiamo più che volentieri al gioco, se poi parte una Ignorance is bliss che rafforza in noi la convinzione che i Living Colour siano stati uno dei più grandi gruppi di rock politico degli ultimi venticinque anni (forse il più grande, e potrei andarlo a dire a casa di Zack de la Rocha appoggiando gli anfibi sulla sua biografia del subcomandante Marcos). Un unico rimpianto: da quel mostro di scaletta che han tirato fuori hanno escluso Leave it alone e soprattutto Nothingness, a meno che non abbian fatto un medley di entrambe negli unici tre minuti in cui ero uscito a prendere una boccata d’aria. Ah, c’è anche il tempo per due cover: Should I stay or should I go e, con somma ironia, In Bloom. Entrambe micidiali. Si versa acqua sull’uccello.