Ma io lo so chi è Mark Lanegan

quando l'erba era verde e gli uomini erano veri uomini

Ritorna William Elliott Whitmore, e questa volta lo senti che è speciale. Pur avendo continuato a incidere dischi con una certa strana regolarità (fino a tutto il 2006 al ritmo di un album e un EP a semestre, roba che manco i Kiss dei tempi d’oro, poi nulla fino al 2009 di Animals in the Dark), il mandriano dell’Iowa (che di per sé è come dire il meccanico di Detroit, ce ne rendiamo conto) non era più riuscito a raggiungere i picchi di pura, cristallina, incontaminata devastazione emotiva dell’immortale Ashes to Dust, ancora oggi e per sempre uno dei dischi più belli e strazianti degli anni Zero (e prima, e dopo, e oltre). Certo, qualche zampata da giovane vecchissimo leone ancora riusciva a piazzarla (Dry su Song of the Blackbird, che riprendeva il discorso esattamente da dove era stato interrotto alla fine di Ashes to Dust, There’s hope for you su Animals in the Dark, sorta di Love will save you ma campagnola e giusto un pelo meno amara) ma erano episodi isolati se si considera quanto i dischi prima fossero capaci integralmente di strapparti l’anima e farla a pezzetti con giusto qualche giro di acustica o banjo e il rantolo di un ultracentenario in fin di vita col catrame al posto del sangue nelle vene. Già, perché poi più passavano gli anni più la voce di Whitmore si normalizzava, ringiovaniva perfino, come una specie di Benjamin Button però bravo a scrivere canzoni che ti lacerano il cuore; fino al 2005 pareva un incrocio tra Tom Waits, l’ultimo Johhny Cash e un tabagista immortale che aveva da poco oltrepassato la boa del primo millennio di età; ora invece è effettivamente la voce di un mandriano trentatreenne che magari apprezza pure whisky e tabacco da masticare, ma senza abusarne. Ma questo non rappresenta più un problema dal momento in cui l’ispirazione dell’uomo torna ai livelli stellari di una volta: i due pezzi in streaming in anteprima dal nuovo, laneganiano Field Songs (che esce il 12 luglio, come il precedente ancora su Anti – ormai definitivamente la roccaforte certificata del vecchiume cool) dicono di una penna che affonda le radici fino alla carne e al sangue della tradizione, ridefinendo il concetto stesso di americana con la sola forza di una chitarra e dell’aria che passa attraverso le corde vocali. Sono canzoni senza tempo, che sono state scritte oggi ma potrebbero esser state scritte duecento anni fa o dopodomani che comunque la loro potenza rimarrebbe esattamente la stessa in ogni caso (magari al netto del costante cinguettio di uccelli registrato in sottofondo che alla lunga diventa leggermente fastidioso, almeno per chi come me vive in città e preferisce il rumore del traffico); canzoni che possono essere apprezzate anche se non avete mai visto una mucca in carne e ossa, non avete la minima idea di come si faccia a dissodare un terreno e dove vivete ci sono giusto i giardini pubblici. Se tutti i rednecks fossero come William Elliott Whitmore probabilmente il mondo sarebbe un posto un poco migliore (o perlomeno in giro ci sarebbe musica molto più bella).

Ascolta i due pezzi in streaming da Field Songs

Sun Kil Moon – Admiral Fell Promises (Caldo Verde)

 
Ormai ho perso il conto delle uscite targate Mark Kozelek negli ultimi anni. Che l’uomo avesse deciso di passare alla cassa non è più un mistero per nessuno da almeno un decennio, e per carità, è una scelta che rientra nel suo pieno diritto; ricordo ancora una sua intervista, doveva essere l’inizio del 2001, in cui dichiarava di vivere in una stanzetta in affitto con l’incubo perenne dello sfratto esecutivo, all’epoca evitato per un soffio grazie al cachet percepito per la sua partecipazione in Quasi Famosi. Veniva veramente da chiedersi perchè gli altri sì e lui no. E che diamine! Gentaglia impresentabile imperversava ovunque (tanto per ricordare, una delle new sensation dei tempi erano i bruttissimi Kings of Convenience), mentre otto anni di carriera irreprensibile con i Red House Painters bastavano a malapena a coprire parte delle spese di una vita di stenti. Mi si era stretto il cuore nel leggere quelle parole, e ad aver saputo il suo indirizzo gli avrei immediatamente spedito qualche dollaro e un paio di scarpe per l’inverno. Musicalmente nessun problema comunque, finchè la qualità ha tenuto: l’EP Rock’n’Roll Singer (2000) era decisamente buono, così come What’s Next to the Moon (2001, raccolta di classici degli AC/DC dell’era Bon Scott spogliati di ogni alito di vita e aggressività, trasfigurati e resi irriconoscibili), per quanto strampalato e bizzarro – o forse proprio per questo – continua ad avere un suo perchè. Nel frattempo era finalmente uscito anche il canto del cigno dei Red House Painters, Old Ramon, bloccato per anni da beghe burocratiche con la major incompetente di turno che non voleva pubblicarlo ma nemmeno intendeva cederne i master, e anche quel disco era un bel disco. Con la nascita dei Sun Kil Moon, poi, la penna dell’uomo era tornata a volare alto: l’esordio Ghosts of the Great Highway (2003) è un capolavoro assoluto, perfettamente in grado di tenere testa alle cose migliori degli anni d’oro, a volte perfino capace di superare vette di ispirazione e lirismo fino ad allora ritenute inviolabili (pezzi come Salvador Sanchez o la torrenziale Duk Koo Kim aggiornavano l’antico canovaccio portandolo al livello successivo grazie all’innesto, perfettamente riuscito, di poderose distorsioni e perfino – incredibile! – qualche assolo). Ghosts of the Great Highway è stato anche l’ultimo sussulto di ispirazione prima del diluvio di uscite assolutamente prescindibili a voler essere buoni: l’album di cover dei Modest Mouse si dimentica agevolmente; i mille live per sola voce e chitarrina sono una noia mortale, tutti, dal primo all’ultimo; la ristampa di Ghosts of the Great Highway comprende un secondo CD di scarti e out-takes che definire ‘superfluo’ sarebbe fare uno sgarbo alla categoria; di April  (nel mezzo c’è stato il ruolo di spalla “saggia” dell’insopportabile Jason Schwartzman nel caruccio Shopgirl, innocuo adattamento cinematografico del romanzo d’esordio di Steve Martin) sono molto belli solo gli ultimi due pezzi, il resto è pilota automatico puro, un tedio da orchite fulminante che si fa fatica a crederci. E ora il ritorno con il moniker Sun Kil Moon, nella pratica nulla cambia: c’è solo Kozelek con la sua chitarrina spagnoleggiante, del resto assumere personale da mettere dietro agli strumenti – e affittare una sala prove, per giunta – avrebbe comportato spese. Gli ingredienti sono gli stessi delle ultime 5.674 uscite: voce mormorata riverberata mugugnata, chitarrina languida mezzo brasileira, comunque sempre picchiettata tipo plin-plon, qualche foto virata in seppia di particolari desolanti e/o posti abbandonati in culo al mondo, ed ecco pronto un altro disco. Anche i testi sembrano assemblati tramite un generatore automatico di liriche ‘alla Mark Kozelek’: ricordi d’infanzia, qualche figa che forse gliel’ha data (questo non lo dice mai direttamente, lo lascia intuire, perchè sennò poi le anime belle si scandalizzano), modelli di macchine (nota bene: Kozelek non sa guidare), nomi e marche, luoghi e date buttati lì un po’ a cazzo, l’Oceano, la spiaggia, ancora ricordi. In tutto questo manco mezzo secondo che non lasci il tempo esattamente come l’ha trovato. Quel che più intristisce è il senso di automatismo smascheratamente alimentare che emerge implacabile dal quadro generale, come se Kozelek avesse scritto e registrato il materiale con la mente già proiettata alla prossima uscita – probabilmente un live in Oklahoma in edizione limitata, gli stessi pezzi più qualche ripescaggio dei Red House Painters per accontentare i reduci, o magari una mezzoretta scarsa di cover di qualche gruppo scrauso, tipo i REO Speedwagon o Ted Nugent, il tutto rigorosamente riarrangiato per lagna salmodiante e chitarrina plin-plon, in ogni caso roba nemmeno brutta, semplicemente inesistente. Che fine indecorosa per uno dei più grandi poeti della musica rock degli anni ’90.

William Fitzsimmons @ Locomotiv, Bologna (22/11/2009)

(foto di Paolo Casarini)

Lui è un dissociato molto fortunato: figlio di genitori ciechi, infermiere nei manicomi, avrebbe continuato in eterno a suonare il suo folkettino malinconico e agreste nel disinteresse generale se qualche cool hunter più rintronato e imbottito di bamba del necessario non avesse deciso di usare alcuni suoi pezzi come sottofondo per le scene madri di un telefilm americano con dottori problematici. Apriti cielo: da allora diventa il più scaricato su iTunes nella categoria folk e, di conseguenza, il nuovo nome da citare per svoltare nelle conversazioni e il nuovo eroe di chiunque abbia fatto di “scopami, sono un tipo sensibile” la propria filosofia di vita. Ma rispetto ad altri cialtroni intimisti tipo Bon Iver e agguerriti stracciapalle coccolati da Pitchfork del cas(zz)o tipo i Fleet Foxes, gentaglia a cui Fitzsimmons viene spesso accomunato, l’uomo ha dalla sua una buona dose di autoironia che aiuta a sdrammatizzare e – soprattutto – almeno tre/quattro canzoni sinceramente belle. Oltre naturalmente a un temibile barbone foltissimo e ispido da fare invidia agli ZZ Top, cifra stilistica più evidente del suo crederci sul serio. Il nuovo The Sparrow and the Crow (notare il titolo uccellesco e menagramo e campagnolo come da prassi) è ancora caldo di pressa, lui viene da Pittsburgh, come George Romero, e ha appena divorziato dalla moglie: perfetto.
Apre Laura Jansen, giovane cantautrice americanolandese forte di un repertorio ancora esiguo (due EP autoprodotti e un album recentissimo) ma di gran classe: voce e tastiera e nient’altro, per una ventina di minuti ci catapulta tutti quanti in un jazz club buio e umido e fumoso a New Orleans in piena notte. Ed è anche simpatica: “questo pezzo non l’ho scritto io, altrimenti vivrei in una villa gigantesca e dormirei in un divano grosso sei volte il mio, che peraltro è pure sfondato”, e parte una cover totalmente trasfigurata di un pezzo dei Kings of Leon, pura merda da pestare che dopo il suo trattamento diventa oro fuso. Gran finale con pubblico incitato a schioccare le dita a tempo. Che bello se Laura Jansen si chiamasse Cat Power.
Poi è il turno di Fitzsimmons. Sul palco è solo con la sua chitarra acustica, scruta le assi che ha sotto i piedi come contenessero in sé chissà quale verità, ha l’espressione di un cane randagio, occhiali rotondi orrendi e sproporzionati, un camicione di flanella che anche nel 1992 sarebbe stato demodè e una voce flebile e strascicata che pare il grido d’aiuto di un invertebrato che sta morendo di noia: sembra buttare male. Ma dura poco. William comincia a dire cazzate tra un pezzo e l’altro. Cazzate divertentissime. Si prende in giro da solo, racconta aneddoti tristissimi sulla sua vita (svelando tra l’altro un recente passato da clochard) come fossero barzellette da spanciarsi dalle risate, conosce i tempi comici meglio di un provetto entertainer; ridono tutti, anche quelli che probabilmente non capiscono una parola di inglese, l’intero locale rimbomba di risate. Dopo il terzo pezzo compare la band, un bassista con un paio di baffi a manubrio da motociclista gay veramente ipnotici, un batterista che si darà da fare con solo cassa e rullante e occasionalmente al banjo, e di nuovo Laura Jansen alla tastiera e ai cori; la musica, da folk triste che era, diventa un rockettino rurale senza spigoli alla Mojave 3, con Fitzsimmons che continua a prendersi e prenderci in giro come fossimo a una serata di stand-up comedy per aspiranti suicidi (il prossimo pezzo sembra allegro, ma parla del divorzio. Sono sempre io, eh?; E ora ecco a voi una delle quattro persone più belle presenti sul palco: Laura Jansen!!!) e riesce a coinvolgere il pubblico in un singalong per un pezzo che si intitola You still hurt me. Ridendo e scherzando, un’ora e un quarto passa via come fossero cinque minuti, l’atmosfera è quella di una serata in osteria con gli amici migliori, gli applausi sono sinceri, il divertimento genuino. Segue assalto al banchetto del merchandise, dove le magliette di Fitzsimmons andranno via come il pane. C’è anche Laura Jansen, che invita tutti a iscriversi alla sua mailing list e stringe la mano a tutti e firma autografi con dedica chiedendo a tutti come si chiamano. Siccome è olandese mi sento in dovere di dirle che Paul Verhoeven è uno dei miei registi preferiti. Lei è d’accordo.

(foto di Paolo Casarini)

Evan Dando (e Chris Brokaw) @ Covo, Bologna (14/11/2009)

 

(foto di Giacomo)

Lui è storia vera; una leggenda, tra le poche leggende rimaste in vita che ogni tanto abbiano ancora voglia di portare in giro il proprio sovrumano canzoniere per graziarci di una bellezza di cui forse non siamo degni. Ma da troppi anni pareva si fosse messo d’impegno per distruggere fin dalle fondamenta quanto di buono è stato (ed è ancora) capace di creare: anni di concerti disastrosi, rovinati e resi ridicoli da un misto di genuina paranoia e assurdi capricci da rockstar glamour mezza tossica anni novanta quale l’uomo è effettivamente stato per molto meno dei proverbiali quindici minuti (a esser buoni non si arriverebbe a sette, e quasi tutti bruciati all’ombra di una cover troppo ingombrante che è stata e sarà per sempre la sua personale My Sharona, la sua Everything about you), quelle stesse tragicomiche bizze che nonostante tutto continuavano a farci dubitare se Evan Dando anni duemila ci facesse o ci fosse. Stasera abbiamo avuto la conferma definitiva: Evan Dando c’è, ma da qualche altra parte. Il suo cervello, unitamente al suo sistema nervoso, non sono (più) qui ma altrove, dove non ci è dato sapere e probabilmente ovunque si trovino stanno pure meglio, ma intanto in questo mondo ci deve pur vivere ed è un inferno. Spunta sul palco da chissà dove e fissa con sguardo allucinato la scaletta appesa alla parete, perfettamente immobile, per trenta secondi buoni. Poi prende in mano la chitarra, un bestione dal corpo enorme tappezzato di adesivi luridi e consunti che ha l’aria di essere molto più anziano e malmesso del suo padrone; non riesce ad allacciare la cinghia e per interminabili istanti, mentre continua ad armeggiare senza successo sullo strumento, la sensazione che si alzi e se ne vada via senza suonare una nota si trasforma progressivamente in certezza. In qualche modo ci riesce; passa dunque a sistemare il microfono che ha davanti. Ha i capelli lunghi e unti che gli cascano su un volto che in altri tempi faceva piangere le ragazzine, oggi scavato e irregolare come quello del suo eroe Townes Van Zandt; indossa una giacca troppo grande stile broker anni ottanta, ci sono perfino le spalline di gommapiuma gigantesche, smisurate, e l’impressione globale è quella di un barbone completamente svalvolato che chiede l’elemosina a Wall Street. Parte con All my life, da quell’indicibile, lacerante auto da fé che è Baby I’m Bored, e ora come allora la sua voce è la diretta emanazione di chi ha pagato caro il semplice fatto di essere venuto al mondo, e porta marchiata sulla pelle ogni singola parola che intona: Tutta la mia vita ho creduto di volere cose che in realtà non volevo affatto, tutta la mia vita ho creduto di desiderare cose di cui non avevo nessun bisogno. Non c’è finzione, non c’è distacco; la voce è quella di un uomo che ha visto cose terribili e ne è venuto fuori pazzo abbastanza da volerle raccontare. Finisce il pezzo e Evan non aspetta gli applausi, attacca subito quello dopo; che è My drug buddy o comunque qualcosa da It’s a Shame About Ray, ora proprio non riesco a ricordare, il set è generoso e non manca niente, ma proprio niente, da Lick a Varshons c’è tutto quel che deve esserci. Per i primi quindici/venti minuti sembra di assistere a un freak show, o a uno snuff movie: vedere Evan ciondolare costretto in quella mostruosa giacca sproporzionata, asimmetrico e cascante come se stesse in piedi per miracolo, come un burattino con qualche filo tranciato, che a metà di ogni pezzo china la testa in una posa grottesca, da marionetta presa a bastonate, perché non riesce a vedere cosa viene dopo nella scaletta che ha davanti ai piedi, ci mette nella spiazzante posizione di testimoni inconsapevoli e impreparati, quella stessa sensazione di profonda e inestirpabile inadeguatezza che provammo vedendo Daniel Johnston esibirsi dal vivo, doveva essere il 2005, un povero bastardo indifeso sparato nel mondo senza alcuna protezione. Poi ad un tratto, improvvisamente e senza un’evidente ragione, Evan la prende bene. La schiena si raddrizza, gli occhi – fino ad allora rimasti quasi costantemente chiusi – si spalancano in allucinanti e prolungati sguardi nel vuoto, stravolge i pezzi fischiettando gli assoli, punteggiandoli con strampalati gorgheggi da alcolizzato pazzo, cambiando le strofe aggiundendo parole a caso (spesso nomi di medicine tipo “Demerol”, o comunque di sostanze psicoattive in genere), addirittura azzardando sorrisi diresti sinceri e sbottando repentinamente con un “it’s a honour to be here in Balònia” assolutamente non richiesto (forse si dimentica della disgraziatissima data tenuta come Lemonheads in un Estragon deserto a novembre 2006, in assoluto tra i concerti più ributtanti e indisponenti che abbia mai visto in tutta la mia vita). Per il gran finale chiama sul palco l’amico e sodale Chris Brokaw, ormai cittadino bolognese onorario (e artefice subito prima di Dando dell’ennesima maiuscola performance, distante dalle dronate pre-concerto dei Fuck Buttons e nuovamente radicata nella tradizione cantautorale americana di cui è esponente tra i più efficaci, umili e convinti), per tre brani in jam confidenziale, un duetto struggente che culmina con una sanguinante Ride with me che è anche chiusura senza possibilità di appello di un set indimenticabile, da conservare nella memoria e ritirare fuori ogni volta che la vita diventa importante. L’ultima nota si spegne che Evan è già corso a rifugiarsi nei camerini fendendo la folla come Cristo nel Tempio. Un gigante.

 

(foto di Elena Morelli)

Pezzi che ricordo (assolutamente NON in ordine tranne il primo e l’ultimo, e comunque ne manca sicuramente qualcuno):

All my life
My drug buddy
It’s a shame about Ray
Alison’s starting to happen
Hard drive
My idea
It looks like you
Why do you do this to yourself
Rancho Santa Fe
Favorite T
Being around
Half the time
Stove
Hospital
If I could talk I’d tell you
The outdoor type
Tenderfoot
No backbone
Waitin’ around to die (Townes Van Zandt cover)
Beautiful (Christina Aguilera cover)
Mexico (Fuckemos cover)
Ride with me

MANCARONI: Nebelung – Mistelteinn

nebelung - mistelteinn - outside

IL DISCO
Rilasciato, bisogna dire con scarso tempismo, nel pieno dell’estate 2005, Mistelteinn è tuttora uno dei dischi più tristi che possiate mai immaginare. Ne sono autori due emeriti sconosciuti di Bonn, Stefan Otto (pelato con barba) e Thomas List (moderatamente capelluto), il primo alla voce (stentorea), entrambi alla chitarra (acustica), come prassi nitidissima e cristallina; si fanno chiamare Nebelung, che – si peritano di farci notare – significa “Novembre” in tedesco antico, tra le principali fonti di ispirazione vantano “le foreste, le foglie che cadono, la pioggia e l’inverno, il bosco, la notte“. Non ingannino tali dichiarazioni, di naïveté assoluta, né tantomeno i testi (rigorosamente in madrelingua) che vanno avanti a furia di citazioni da Nietzsche, Baudelaire e Von Hofmannsthal, o la copertina anonimizzante, con un bel tronco d’albero in primo piano e uno sfondo color verde vomito che perfino un ragazzino che smanetta a caso con una copia crakkata di Photoshop si vergognerebbe; il disco è veramente lacerante. Aiutati da una serie di ospiti ora al violoncello, ora al violino, ora al flauto, ora all’accordion (che è un modo meno plebeo per dire “fisarmonica”), i due dipanano una brevissima serie di pezzi (cinque escludendo l’intro che peraltro non è nemmeno indicato nella tracklist) assolutamente commoventi per ispirazione e rigore, dalla semplicità disarmante (pochi e ripetuti come tanti piccoli mantra gli arpeggi in ogni brano), pari almeno all’intensità delle sensazioni sprigionate. In pochi sono riusciti a dire così tanto con così poco; tra quei pochi ci sono sicuramente i Forseti del povero Andreas Ritter, a cui i Nebelung senza alcun dubbio devono ben più di un po’. Ma la sofferenza, il dolore, il senso di autentica e insanabile disperazione di cui queste poche indifese tristissime canzoni sono portatrici e generatrici è innegabilmente autentico, è reale, e fa male. Pericolosissimo accostarsi a Mistelteinn se si è anche solo lontanamente presi male; dura meno di mezz’ora, ma è di quelle mezze ore che non si dimenticano.

PERCHÈ NON STA NELLE CLASSIFICHE DI FINE ANNO
Innanzitutto è uscito in tiratura ultralimitata (la prima stampa, 500 pezzi, è andata presto esaurita; ne è seguita una seconda di 300. Copie del disco sono ora facilmente reperibili via mailorder, ma a prezzi non esattamente popolari). Poi: il genere di cui i Nebelung fanno parte, il neofolk schiettamente e fieramente europeo, è materia di cui alla critica che conta non potrebbe fregare di meno. Totalmente ignorato (quando va bene), irriso o comunque guardato spesso dall’alto in basso con un bagaglio di pregiudizi grosso quanto l’Everest, da sempre è appannaggio esclusivo di pseudonazi con gravissimi problemi comportamentali o monomaniaci totali che conoscono a menadito ogni singola uscita e ignorano beatamente tutto il resto. Salvo rarissime eccezioni il neofolk non è ancora stato “storicizzato” a dovere, e probabilmente non lo sarà mai.

PERCHÈ STA QUA DENTRO
Perché vale la pena ascoltarlo. I primi due pezzi, Heimsuchung e Abel und Kain, sono tra le cose più belle e struggenti incise negli ultimi dieci anni. E poi, tolto il respingente cantato baritonale in tedesco, le similitudini con suoni e personaggi più potabili sono più di quante siate disposti a credere. Voglio dire, le stesse cose le fa Steve Von Till con Amber Asylum ospite e tutti (giustamente) a sborrare nei pantaloni; le fanno due crucchi dissociati e restano patrimonio per soli nazistelli particolarmente introspettivi. Questo non è giusto.