Pagare la musica #7 (il supporto)

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Mio babbo aveva un registratore di quelli che andavano con i nastri a bobina fatti come le pizze dei film, ma non l’ho mai visto in funzione. La prima volta che ne ho visto uno in funzione è stata nel 1995 e ricordo persino il pezzo: Girl, You’ll Be a Woman Soon degli Urge Overkill suonata da Mia Wallace mentre Vincent Vega rifletteva in bagno sul da farsi. Il primo riproduttore di musica che ho imparato a usare invece era un mangianastri di quelli rettangolari con un microfono attaccato e quattro tasti sotto a incastro: mio babbo mi aveva registrato una cassetta tenendo il microfono puntato verso la TV mentre passavano le sigle dei puffi e cose simili. La fedeltà del suono non è mai stata un problema. Il mio primo walkman, ovviamente tarocco e in regalo con il detersivo, arrivò verso le medie. Un mio amico che frequentava l’IPSIA vide casa mia e decise di costruirmi un impianto di diffusione casereccio in una stanza che utilizzavo poco ma che nelle intenzioni sarebbe diventata il mio studio, o qualcosa così. era la prima media. L’impianto di diffusione consisteva in quattro casse a cono per l’autoradio montate ai quattro angoli della stanza, un ingresso per il jack sul walkman, fili tesi a cazzo per tutta la casa e una scatolina con quattro LED rossi che facevano il fascio di luce tipo Supercar. L’impianto durò una settimana o due, per via del fatto che tutti quei fili erano ingestibili.

Le persone con cui ero cresciuto si erano fatte regalare l’impianto stereo verso i 14 anni. Cresime, diplomi, promozioni e cose simili: gli impianti stereo erano roba per intenditori, costavano due milioni finiti e duravano una ventina d’anni. Li compravi con quel sentimento materno sul genere “qualsiasi cosa ci succeda d’ora in poi, il problema dell’hi-fi è risolto”. Ti affidavi alle cure di personaggi viscidi e forse-competenti che ti consigliavano quei cavi piuttosto che quegli altri e qualsiasi altro genere di minchiata ti facesse spendere soldi extra. I nomi che giravano erano Pioneer, Sony e cose simili. Gli impianti si rivelarono quasi tutti all’altezza delle aspettative, neri belli e indistruttibili, ma non ne ho mai posseduto uno. Fino ai 18 anni, in effetti, non ho (quasi) speso soldi per ascoltare la musica, se non per la musica in sé.

Cambiai quattro walkman, tutta roba di seconda mano che ottenni al baratto o con altri fustini di detersivo; forse comprai qualche paio di cuffie, sempre roba che funzionava poco e male in nome del non-spendere. La differenza tra un paio di cuffie buone e un paio di cuffie cattive era quanto in alto potevano andare sullo stesso walkman prima di cominciare a friggere. Non ho posseduto un paio di cuffioni isolati e ad alta fedeltà finchè non ho iniziato a mixare dischi in cameretta; la rivoluzione degli auricolari che entravano nell’orecchio mi avrebbe lasciato freddino, ma ha migliorato di parecchio i miei rapporti con chiunque mi stesse vicino e non dovesse sentire la musica fuoriuscire dalle orecchie, i poverini. Avevano ragione loro.

Mio fratello usava un mangianastri a piastra doppia molto nero e arrotondato, vinto con una promozione di pentole (forse dovrei dire gabbato: le pentole le vendeva mio babbo di lavoro, dovette spezzare una consegna e regalò il premio a mio fratello per non dover scegliere tra i due clienti), e la musica usciva dal bagno che teneva militarmente occupato per ore. Quando ne comprò un altro, ancora più piccolo e smart, mi passò il vecchio. Il problema era che il nuovo non gli funzionava bene, suonava le cassette a una velocità leggermente più veloce del normale. Forse avevo quattordici o quindici anni a questo punto della storia, e un mangianastri che velocizzasse le mie cassette era tutto quello che potevo volere dalla vita. Mio fratello si riprese il vecchio mangianastri e mi lasciò il nuovo, con il quale scoprii probabilmente il fatto che mi piaceva la musica più veloce del normale e conseguentemente il punk.

Nel 1996 mi patentai: la Peugeot 106 di mia madre passò in comproprietà e con il primo stipendio estivo mi andai a comprare un’autoradio, una cafonissima Majestic a cassette che feci installare dal mio amico –quello che mi aveva messo l’impianto in camera. Giravano già le autoradio a CD, ma costavano troppi soldi e i CD saltavano spesso.

Comprai il primo lettore CD con la prima paga del negozio di alimentari, era il 1998 e costava 98000 lire. Era un mangianastri a doppia piastra di plastica argentata con sopra un lettore CD a scatto. Avevo una collezione di centinaia o migliaia di nastri e nessun CD, ci volle un bel po’ ad abituarmi al fatto che in realtà i Bad Religion suonavano più lenti di così. Poi il lettore CD si ruppe e lo portai in assistenza al Media World, dove rimase tipo UN ANNO e per non farmi mancare la musica spesi un altro centinaio di mila lire per un lettore CD portatile che facevo suonare in casa con i pezzi riciclati del mio impianto audio da 14enne. I nastri che non erano stati buttati suonavano solo in  auto: alcuni tipo Zen Arcade o Nevermind erano consumati al punto da sembrare musica crustcore registrata a sbafo in Indonesia e mi piacevano di più dei CD originali, che comunque non possedetti fino al 2008 (Zen Arcade, Nevermind non l’ho mai avuto originale, a parte il nastro).

Il primo lettore non si riparava ed era uscito fuori commercio: me ne diedero uno simile, per la stessa fascia prezzo, con una piastra per le cassette invece che due. Smisi di doppiare i nastri e passai a una rigida dieta di CD. Fu più o meno in quel periodo che iniziai con i computer, una torre grandissima assemblata da un mio vicino di casa che mi aveva messo dentro una scheda audio “della madonna” che usavano “per fare i dischi veri” e che avrei dovuto attaccare allo stereo per avere piena potenza. Avercelo.

Mio babbo smise il negozio di pentole quando facevo la seconda superiore, questo per dire che quando mia madre ebbe bisogno di pentole riuscii ad approfittare della promo scegliendo come regalo un impianto stereo invece che un set di lenzuola. L’impianto stereo in realtà era uno di quei modelli compatti grandi più o meno come un forno a microonde, tutti caricati a mille con un design spaziale, le casse a torre separate e il display con l’equalizzatore a luce blu che se rimaneva acceso la notte ti abbronzavi. Oltre a questo il mio impianto stereo montava l’invenzione più radicalmente STUPIDA del progresso umano applicato all’audio, vale a dire la tripla piastra CD rotante. Caricavi tre CD e ne sceglievi uno, ma se volevi ascoltare ogni volta il CD che avevi caricato dovevi impararti una sequenza di tasti che non facesse inavvertitamente entrare un altro CD della piastra rotante o (peggio ancora) una piastra vuota che ti mandava il lettore in stallo costringendo l’attrezzo a un reboot automatico che impiegava diversi minuti, il tutto magari per suonare un pezzo dei Descendents che durava un decimo dello sbattimento.

Lo stereo aveva la doppia piastra e –dopo un annetto- il lettore CD malfunzionante. Pompava un bel po’, ma mia mamma aveva buttato via la maggior parte dei miei nastri per una questione di zelo suo. Mio babbo passava il tempo a doppiarsi dei nastri con gli stessi pezzi (mischiava una quindicina di canzoni in modo diverso, ha fatto 20 o 30 nastri con le stesse 15 canzoni più o meno) sul mio vecchio mangianastri, quello che andava più veloce e che in quello stesso periodo  iniziò a dare problemi. La fortuna fu che non riuscì a trovare un mangianastri a piastra doppia al Marco Polo: gli offrii il mio stereo spaziale in cambio di un compatto a poco prezzo con lettore CD a piastra singola. Scelsi un Sony con la fronte bianca e uno schermo rosso, abbastanza elegante per gli standard dell’epoca. Aveva un suono piuttosto figo. Costava pochi soldi perché era rimasto solo il modello in esposizione. È quello su cui ascolto musica ancor oggi.

Quando cambiai auto decisi che l’autoradio della casa costava troppi soldi, così ne andai a prendere una qualsiasi al Marco Polo. Per qualche tempo fu una goduria: musica a manetta in giro per la strada. poi progressivamente iniziò a smettere di leggere certi CD masterizzati, poi la radio smise di funzionare, poi i CD masterizzati che leggeva si ridussero a due marche, poi iniziò a smettere di leggere anche certi originali. D’estate l’auto si scaldava troppo e l’autoradio reagiva male: qualche disco rimaneva incastrato all’interno e per un’oretta poteva girare solo quello. Imparai qualche trucchetto: pulire i dischi, staccare il frontalino, provare a passare alla traccia 6, robe simili.

Con la consulenza di un amico comprai su Ebay il mio primo giradischi, che è l’unico acquisto che ho mai fatto su Ebay. Saranno ormai dieci anni. È un modello Roadstar molto tamarro che attacco al compatto attraverso un orribile mixer a tre canali che ho utilizzato per imparare a mixare: il compatto Sony non ha l’amplificatore per il giradischi. Non conosco bene i dettagli. Questa cosa del giradischi e del mixer fa incazzare enormemente la mia fidanzata, la quale amerebbe MOOOLTO di più una soluzione più smart e diretta e priva di tutti quei fili e di quel metallo polveroso, ma per ora va così.

Non avete idea di quante cuffie ho comprato in vita mia. Almeno 5 paia solo per mettere dischi in giro, forse un paio di auricolari all’anno per 15 anni, più le cuffie con la spugna che dio solo sa. Il mio preferito, una cosa un po’ affettiva, è un paio di AKG vecchia maniera con la copertura di spugna che il mio amico Diego scoprì di riuscire a spuntare a un prezzo bassissimo.

La settimana scorsa ho comprato la terza autoradio della mia vita. Costa cento euro e risponde al mio bisogno di smettere di tenere CD in auto. Ha una connessione USB a cui posso attaccare le chiavette o l’iphone, la radio funziona e se piglia malissimo c’è pure l’ingresso AUX –copio quello che ho letto. Pensavo l’ingresso USB fosse un optional, ma ce l’hanno tutte. Quello che non tutte le autoradio hanno è il lettore CD: è un optional montato sulla metà dei modelli, se ti serve, e/o sei un rincoglionito che ancora s’ostina a comprare musica originale, tocca pagare un extra.

PITCHFORKIANA – Hipstamatic summer, Buckcherry, Hellyeah, Walter Schreifels, Ted Leo

(è uno dei primi risultati se cerchi su google immagini *apro più culi di Rocco a Praga*)

HELLYEAH – STAMPEDE (UNIVERSAL)
Un gruppo (il monicker tradotto significa tipo Diobò, alla grande) tra Motorhead e primi Down senza pezzi, con Vinnie Paul alla batteria e il cantante dei Mudvayne alla voce. Non è che sia un brutto disco, ma non è quello il problema. Peraltro Vinnie Paul (il quale ha tutto il diritto di suonare la musica che vuole con chi gli aggrada) non capirebbe il problema manco se passasse cinque anni a non ragionare su nient’altro, cosa che allo stato attuale non sembra avere intenzione di fare. Al suo posto probabilmente farei qualcosa di simile, cioè un disco qualunque (FORSE senza una ballad elettrica intitolata Better Man, ecco), e su Bastonate il disco si beccherebbe comunque un 4.8 a stare larghi.

VVAA – HIPSTAMATIC SUMMER
Sarebbe una compilation estiva messa in free download da Colasanti su Stereogram. Il titolo, probabilmente casuale, si riferisce all’applicazione di iPhone che trucca le foto digitali come se fossero Polaroid (notare tra l’altro l’ironia di fondo, Colasanti che si autodichiara Enzo Baruffaldi dell’era iPhone). La selezione è molto più figa, tipo il dj-set dell’estate che non ti sei meritato: drugapulco, Deerhunter, Japandroids e svariate altre cose che buttano benissimo se hai il lettore mp3 subacqueo. 8.3

WALTER SCHREIFELS – AN OPEN LETTER TO THE SCENE (BIG SCARY MONSTERS)
College-pop stile colonna sonora di OC, senza pretese ma con pezzi. Probabilmente è il peggior disco a cui Walter Schreifels abbia mai messo mano, ma bastano la firma e due pennate da paura (tipo la conclusiva Open Letter) a fare un mezzo capolavoro. 7.9

TED LEO AND THE PHARMACISTS – THE BRUTALIST BRICKS (MATADOR)
Ieri sera al concerto dei Low Anthem (7.7) ho incrociato il banchetto della Casa del disco e ho provato a vedere se c’era per comprarlo a scatola chiusa (9.9 a me) e andare nella fotta. Non l’ho visto (5.1), e il tizio che era al banchetto con me s’è inculato il disco nuovo dei Magnetic Fields (7.2). Per mezzo secondo ho pensato di pigliarmi l’ultimo Pan Sonic (8.3), ma ho ripiegato senza alcuna ragione plausibile sul primo disco dei Baroness, per i quali non ho mai provato nulla oltre il 5.2.

BUCKCHERRY – ALL NIGHT LONG (ELEVEN SEVEN)
Ridendo e scherzando sono al quinto disco, il che mi suscita un rispetto che va davvero molto oltre il quinto disco in sé. 6.3

Per l’International Day of Slayer.

Serena ha una chioma di capelli neri ricci e folti, si mette certe paia di Levi’s oversize che le finiscono sotto le Puma nere e ha i fili delle cuffie che s’intravedono a malapena sotto il mento, poco prima del parka scuro che porta come se fosse una seconda casa. La intravedo più o meno quotidianamente alla fermata dell’autobus mentre sto camminando verso la lezione del pomeriggio in facoltà. Qualche anno prima siamo finiti insieme, quelle storielle di bacini e abbraccini che possono capitarti in terza superiore con ragazze delle quali sai poco o niente e che -soprattutto- sanno poco o niente di te. Il sesso è roba da film porno e pippe quotidiane. Lei le superiori le sta ancora finendo, io ho un anno di università sulle spalle. Ho un monte di teorie che mischiano un marxismo-leninismo calligrafico e soporifero di certi testi universitari alle tematiche global di cui mi documento a viva forza leggendo Internazionale. Sono pieno di stronzate, molte delle quali assorbite e rese innocue dal fatto che non parlo con nessuno. Sospetto che Serena non mi riconoscerebbe nemmeno se mi presentassi, fantastico perfino di finire in qualche occasione casuale nella quale le rivelo che anni prima ci eravamo amati teneramente, con lei che d’improvviso ricorda e sospira cose tipo “ma che ci è successo?”. A diciott’anni.

Una domenica sera la incontro in un locale. Lei è in giro con i suoi amici, io sono in giro con i miei. I miei sanno che abbiamo flirtato da giovani, in effetti a suo tempo non hanno mancato di prendermi per il culo. Serena è obesa. Le ragazze obese mi eccitano, ma i miei amici non hanno gli strumenti concettuali per capirlo. Tra i venti e i venticinque sei ancora in balia di quello che gli altri pensano di te. Ci incontriamo e parliamo. I suoi amici sghignazzano, i miei sghignazzano di più. Qualche mio amico tenta un approccio con qualche sua amica. Marco avrà persino successo, finirà assieme ad una di loro per un paio di settimane (finire assieme uguale limonare, questa non è New York). Serena mi chiede come mai passo davanti alla fermata del tram tutti i giorni e la guardo senza andare a salutarla. Mi sento un cretino, chiacchieriamo. Ho un fidanzato, dice lei. Io non ho nessuno, dico. La sua non è una storia seria, la mia sì. Forse ci sta provando un po’, forse sono solo io a voler pensare che ci provi. Il locale in cui siamo brilla di luci artificiali riflesse sulle camicie bianche degli avventori in cerca di un pezzo di figa, e dei capelli troppo stirati di certi pezzi di figa in cerca di camicie bianche a cui non darla. Ho bevuto troppo, come ogni sera che non passo in casa. Probabilmente indosso una felpa nera col cappuccio e un paio di jeans bucherellati che sembrano raccontare la storia di uno skater valoroso che non ha paura di cadere e rialzarsi. L’ultima volta che sono salito su uno skateboard è stato in terza media, e non sono mai andato oltre la prima sbucciatura. Serena mi rivela di essere passata all’accacì, ascolta roba Fat Wreck e qualche disco vecchio stile Bad Religion. Odio i Bad Religion e non riesco a non dirglielo. Abbozza. Le prometto di passare a salutarla la prossima volta che la vedo alla fermata dell’autobus. Qualche giorno dopo dopo passo davvero, ma lei sta limonando con qualcuno -probabilmente il suo fidanzato non-troppo-serio. Li vedo in lontananza e passo oltre. Io sto ascoltando sul walkman la cassetta di Undisputed Attitude che mi ha doppiato Alberto un paio di mesi prima. Alzo il volume ad un livello indecoroso e non spengo finchè non è ora di iniziare la lezione. Il walkman con cui vado in giro suona i nastri ad una velocità un po’ più alta di quanto non siano supposti girare in realtà: per i dischi rock è una cosa talmente figa che riascoltarli a velocità normale diventa praticamente impossibile. Due giorni dopo ripasso dalla fermata dell’autobus. Lei mi viene incontro, dice di avermi visto l’altro ieri, mi chiede scusa. Parliamo due minuti. Mi sorride, mi chiede cosa sto ascoltando. Un disco di cover accacì fatto dagli Slayer, le dico. Le passo le cuffie e le faccio ascoltare la cover di Guilty Of Being White. Non è molto il mio genere, risponde. Tra qualche giorno finirà il semestre. La rivedrò altre due volte: cinque anni dopo compro dischi in un centro commerciale e lei sta guardando nel reparto videogame con il suo fidanzato. Un paio d’anni dopo ancora, quasi la investo con l’auto mentre attraversa la strada vicino ad un semaforo in centro. Ha un paio di infradito, sembra incinta. Non sono il padre, e probabilmente Serena non è mai esistita. Il locale dove ci siamo incontrati è diventato un emporio di cibi e attrezzature per cani.

Questa sopra è l’unica cosa detta dallo zio Henry con la quale non sono d’accordo -eccezion fatta forse per la tirata sulla musica elettronica. La storia degli Slayer è la più bella storia metal della storia, in parte perchè la loro musica è la miglior musica mai scritta e suonata e in parte perchè Kerry King e Jeff Hanneman sono dei campioni olimpici di sbrocco. I dischi brutti degli Slayer, tipo Christ Illusion e World Painted Blood, sono “semplici” amarcord di potenza devastante. I dischi belli degli Slayer li abbiamo ascoltati così tanto che la voce di Tom Araya ci è più familiare di quella della mamma.

I gruppi rock sono come le ragazze. Di alcuni ti invaghisci, di altri ti innamori. Alcune sono storie intense che si bruciano in una notte, altre sono successe solo nella tua testa. Solo una manciata diventano compagni sicuri con cui passare degli anni, e ne puoi sposare uno soltanto. Il 6 giugno, come ogni anno, è eletto International Day of Slayer. Stavo dimenticandolo, Matteo me l’ha ricordato nell’agendina di concerti di questa settimana. Per me è un po’ come la festa di compleanno del mio migliore amico. Tutto ciò che ci è richiesto di fare domenica è di prendere in mano QUEI dischi, ripiazzarli nel lettore, alzare il volume e brindare alla salute di chi, come noi, ha sposato la loro musica. Per altri, semplicemente, “non è molto il mio genere”.